Le bestie di dio

Poveri cristi, giraffe, lumache. Le creature del disco di Capossela, che canta del sacro, dell'umano e dell'inumano, della peste e di questo nostro tempo

Simonetta Sciandivasci

    C'è l'animale che ci portiamo dentro, e c'è la bestia che ci aspetta fuori.

    L'animale è la creatura del cantico, e pure se si prende tutto, anche il caffè, e ci rende schiavi delle nostre passioni, è antropocentrico, antropomorfo, quasi sociale, ormai friendly. L'usiamo non tanto per ricucire quanto per rammagliare lo strappo tra uomo e natura, e così riconnetterci e riunirci con il cosmo, che abbiamo anch'esso reso antropocentrico, ideale, culturale, praticamente un giardino.

    La bestia, invece, compare e ringhia nelle ballate, è inumana e inutile, pericolosa e fiera, crudele e incoercibile, unfriendly e inassimilabile, pestilenziale e istintiva. E' l'animale come lo intendeva Pessoa: quello che sa ciò che deve sapere, mentre noi no, non lo sappiamo. E' l'uro che diciassettemila anni fa l'uomo rientrò nelle caverne per ritrarre, e da quel momento “cominciò a giocare il gioco di diventare uomo”. Così canta Vinicio Capossela, nella prima canzone del suo ultimo disco zero animalista e molto bestialista, ambientato su una linea del tempo che corre dalle grotte di Lascaux fino a “la peste virale” di Twitter, che se ci pensiamo è pur sempre una grotta, o almeno un grottino. Il disco si chiama “Ballata per uomini e bestie”, Capossela lo definisce “arcaico e contemporaneo”, il Rolling Stone “un lavoro sul medioevo digitale”, Franzen chi lo sa cosa direbbe, forse accuserebbe l'imperdonabile assenza di uccelletti.

    Le bestie di Capossela sono o realmente esistite, o realmente inventate, o estinte, o magiche, o sciagurate, o grottesche (poveri cristi, giraffe, orsi, lumache, tutte le creature della terra): selvatiche, tutte quante, impossibili da impiegare nella rammagliatura di uomo e natura, ma anzi utili a scoprire la frattura, la lacerazione che l'uomo ha compiuto uscendo dal bestiario del creato e volendo assoggettare le creature che ci erano rimaste dentro, a volte addomesticandole, altre sterminandole. “La storia del rapporto con la natura è la storia di una lacerazione, di un limite infranto”. Non riconoscendo più le bestie come bestie, smettendo di temerle come l'Alterità assoluta, l'estraneità all'umano, abbiamo perduto il contatto con il sacro: “Il sacro – dice Capossela – è qualcosa di inaccessibile e l'animale ha, da sempre, espresso un enigma. Un'altra possibilità di leggere e percepire il mondo. Possibilità che la mia cultura mi ha precluso”.

    Un modo sicuro per zittire quell'enigma è accarezzare gli squali, o le anemoni, o gli orsi, o le meduse, come vediamo fare ogni giorno su Instagram da qualche ecologista amante di acquari, perché è questo il solo modo che abbiamo per sentirci tutti uguali, e ugualmente meritevoli di abitare il pianeta terra: dimostrare che anche le bestie sono bisognose di coccole e capaci di amore, come se l'amore non fosse un'invenzione umana non solo piuttosto recente ma pure tutt'altro che universale. La bestia è vuota di umanità e per noi che d'umanità siamo esportatori yankee è un fatto inaccettabile, nel quale non abbiamo alcuna intenzione di guardare. Dovremmo farlo, invece, per entrare nel vero. Al lupo mannaro della sua Loup Garou, Capossela fa dire: “La natura s'è chiusa a chiave, non c'è passaggio tra vivi e morti, né tra uomini e animali, ma il passaggio io voglio trovare, io mi voglio trasformare”. E ancora: “Voglio farmi lupo, voglio uscire da me, voglio lasciare il reale ed entrare nel vero”.

    Diversamente dai mannari di Tommaso Landolfi, che avevano problemi più concreti, e non sopportavano la luna perché “essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando in posti umidi, nei braghi dei pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo”, il mannaro di Capossela ha un mandato di verità, non teme di trasformarsi, ma ne ha bisogno, non teme di uccidere o rovinare, ma sa che potrà soltanto ripristinare. Se non si trasforma in bestia, l'uomo non può accedere al vero, stordito e intontito com'è dal reale, inconsapevole della scelta arbitraria che esso rappresenta, di come esso sia linguaggio, inscrizione. Capossela lo faceva già nel disco precedente, “Ombre, canzoni della cupa e altri spaventi”: indicava che è nell'oscurità e nel suo popolo mostruoso che ci si deve immergere per strappare di dosso alla verità il vestito della realtà. L'immersione, lo scavo, la discesa, la trasformazione: sono queste le azioni della conoscenza. La parola uomo viene da homo, colui che seppellisce i morti, dal latino humare e il mondo dei morti è, nel folklore calabrese, “Il mondo della verità”. Scende Ulisse nel regno dei morti, scende al Pireo Platone nel Primo libro della Repubblica, e scende il povero cristo dalla croce: “E per prima cosa ha appreso la condizione atroce, amar la vita e vivere, ed essere felice, amar la vita e vivere sapendo di morire, e intanto chi gli è sopra si gode oro e alloro”. Si risale per raccontare, si scende per farsi uomini tra gli uomini, per conoscere, per brancolare, che è un altro verbo, un'altra azione di accesso, di confusione prima e accesso poi.

    L'uomo comincia a vedere quando esce dalla caverna, ma comincia a conoscere quando ci rientra per disegnare ciò che ha visto: “L'uro avvolto di pelle e paura, nel grembo della terra buia”. Persino il porco maiale, “la creatura più prossima all'uomo”, nella ballata del suo testamento, arriva dall'ombra: “E se pure non ho visto il cielo ho vissuto davvero, e se pure non ho visto il sole del mondo ho conosciuto l'odore”.

    Persino la tentazione di sant'Antonio è “rubare il fuoco da sotto al demonio, andare sotto nel mondo ctonio”.

    Il disco di Capossela è uscito nei giorni in cui è venuto fuori che l'uomo di Neanderthal, che di pittura rupestre è stato il pioniere – ben 64 mila anni fa, molto prima del Sapiens che dipinse l'uro alle Lascaux – s'è estinto a seguito di un crollo del campo magnetico terrestre che provocò un aumento esponenziale delle radiazioni ultraviolette, fatali per i Neanderthaliani e ininfluenti per i Cro-Magnon. Negli stessi giorni, a Los Angeles ci si è preoccupati per possibili epidemie di peste bubbonica, perché i ratti e le pulci che ne sono portatori sono dappertutto e fuori controllo: alcuni studiosi ambientalisti hanno detto che la colpa è dei cambiamenti climatici. A New York the same, e il 22 maggio scorso il New York Times ha scritto “Rats are taking over New York City” e ha dato la colpa alla gentrificazione. Qualche mese fa, nel cesenate, c'è stata un'invasione di “ratti bianchi pazzi”: si mordevano tra loro e si lanciavano contro le macchine in corsa, ne scrisse anche il Guardian, disse che era peggio di un film horror ed effettivamente lo era, perché topi furibondi che ti saltano sul cruscotto sono assai peggio di topi che mangiano insieme agli uomini nel finale di “Nosferatu”, quando l'umanità s'ammala di peste e si rassegna alla morte e decide di trascorrere i giorni che restano da vivere in orge e banchetti a cui partecipano tutti, e ratti e bestie mangiano negli stessi piatti degli esseri umani, perché tanto la peste rende tutti uguali, come diceva Artaud. Tornerà la peste bubbonica e avrà le nostre sagre, e uno varrà uno sul serio, un uomo varrà quanto un topo, e un tombino varrà quanto un appartamento? Non sarà che è già successo e che la peste è questo nostro tempo, che come la peste rade tutto al suolo ed è così che fa l'uguaglianza tra persone e persone, mentre quella tra persone e animali la fa cucendo tutine sui cani e illudendosi che di uno squalo si può non aver paura? Capossela dice di sì, la pestilenza la vede nei tweet, il contagio nei retweet: “La meravigliosa peste virale che tutti ci fa liberi che tutti ci fa uguali, che venga la peste e liberi il divieto, la meravigliosa peste che libera barbarie all'aria che libera il tremendo dentro”. Che libertà è quella della bestia? L'inutilità. “Superflui cacciati e inutili, a Brema andiamo a suonare!”, fa ritornellare Capossela all'asino che scappa dal padrone che vuole vendere la sua pelle, ora che è troppo vecchio per trasportare carichi, e al gatto nero coi denti vecchi che non prendon topi, il cane non più buono per la caccia, il gallo al quale vogliono amputare il collo. Quattro esodati che si tiran fuori dal ciclo produttivo, che scelgono di trovarsi “qualcosa di meglio da fare della morte” e formano una banda municipale – e sì che è una canzone politica, chissà se l'hanno ascoltata all'Organizzazione mondiale della Sanità che finalmente ha stabilito che di lavoro si può impazzire e che il Burnout è una sindrome (e mandiamola anche a Landini).

    Che libertà è, invece, quella dell'uomo? Scegliere l'altro. E prima ancora, per poterlo scegliere, poterlo vedere, averne lo spazio e il tempo. Lo dice, Capossela, ne “La lumaca”, che nasce con la pioggia, muore d'autunno, “come partorita da un canto” e “aiuta l'amore senza difesa che non sia la lentezza”, e si rimpicciolisce per lasciar spazio intorno a sé, e s'arresta per dar tempo agli altri di arrivare, e li aspetta. Li aspetta.

    Spiace per Franzen, ma niente uccelletti coi loro voli imprevedibili e ascese velocissime neppure quando si parla della libertà, che pure correlano oggettivamente. Il porco che mangia senza contenimento, e che di sé lascia tutto, per non buttare via niente, nemmeno la vescica – “la prendano i bambini, che ci faccian palloncini” – serve a Capossela per dire che la sfrenatezza con cui appaghiamo i nostri bisogni, come fossimo maiali inconsapevoli che più ingrassano e prima e peggio muoiono, è prigionia, non libertà.

    Ne esiste una più vera di libertà, per l'essere umano che voglia riconoscere la bestia fuori di sé e l'umano dentro di sé, ed è quella che ha spiegato una volta Cacciari parlando di Maria: il fare dono di sé, che non è per forza un sacrificio, ma può essere, come nel caso della madre di Cristo, un desiderio. Disse: “E' oltreumano seguire gli esempi di Maria, Gesù, Francesco? Può darsi. E può anche darsi che qui si incontri la radicalità del messaggio cristiano: nell'impossibile, che non è una fantasia, ma l'estrema misura del possibile. E' questo che dice Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità”. Canta Capossela in Perfetta Letizia di Francesco, che riesce a parlare a uomini e bestie soltanto dopo essersi spogliato di tutto, aver rinunciato a tutti i suoi bisogni tranne che a uno: il desiderio di essere per l'altro, il solo desiderio che, nel portarci verso l'altro (umano o bestia che sia), ci spoglia della tentazione di possederlo, ammansirlo, migliorarlo, farlo simile e noi non doverne mai avere paura.

    Lavorando alla Ballata del carcere di Reading, che Capossela ha trasposto in questo disco Anima Mundi, Oscar Wilde scrisse che “Cristo non è morto per salvare la gente, ma per insegnare alla gente a salvarsi a vicenda”. Quanta buonafede sprecata, chissà quando impareremo a salvarci tra noi, a scegliere e desiderare per l'altro, a non incatenare la bestia all'animale e l'animale alla tutina, a lasciare che l'eternità ci scordi, il creato non abbia padroni, le bestie siano spaventose, il tempo ci invecchi, e l'amore non sia un assassinio, visto che per ora “Ciascuno uccide quello che ama, ma non ognuno per questo muore”. Non siamo certo esseri rassicuranti, noialtri capostipiti della catena alimentare: vulnerabili e vulneranti, codardi e presuntuosi, dissacrati e dissacranti, e meno male che ogni tanto arriva una peste, a rimetterci la testa a posto, più in basso possibile, nel punto più oscuro della caverna. Povero il cagnolino, e il porco, e il lupo, e l'orso, e la giraffa che ci capiteranno tra le mani fino a quando li tratteremo da animali da salvare, e non da bestie da temere e amare così, intimorenti come sono, creature di un divino dal quale veniamo anche noi, ma che ci ha assegnato un destino assai diverso dal loro, incomprensibile con l'intelligenza umana, che sa molte cose, tranne quelle che deve sapere.