Andrea Pirlo è nato il 19 maggio del 1979 (foto LaPresse)

Io sono il calcio

Beppe Di Corrado

Andrea Pirlo ha smesso di giocare dopo avere incarnato il meglio di questo sport per 24 anni. L’ultima lezione del Maestro

Winning Eleven aveva capito prima degli altri. Intelligenza artificiale, evidentemente. Intelligenza artificiale che interpreta l’intelligenza reale. Era quasi vent’anni fa: Andrea Pirlo era in prestito dall’Inter alla Reggina ed era la stella della Nazionale Under 21. Non era il Maestro, non ancora. Winning Eleven aveva capito. In quel gioco per Playstation che non aveva la definizione dei Fifa o dei Pes di oggi, Pirlo faceva giocate che nessun altro giocatore faceva. Tu prendevi l’Under 21 italiana e cominciavi stagioni su stagioni: Pirlo 10 e Ventola 9. Assist e gol. Vittorie. Come se quella macchina e quel software avessero dentro il riconoscimento preventivo del talento. Che in realtà solo le dinamiche del pallone non avevano ratificato ai livelli globali dei due decenni successivi. Perché Pirlo è sempre stato quello che è stato: il calcio. Gli altri sono qualche altra cosa. Lui è questo sport: classe, tocco di palla, tecnica, tattica, dribbling, forza, lanci, assist, gol. Movimenti, ecco. Movimenti. Perché chi è il calcio sposta una partita con una finta o vedendo il movimento di un compagno. Qui c’è la grandezza infinita di Andrea Pirlo: nella visione. Lo dice anche lui, giocatore Frankenstein: “Il cervello? Xavi. Cuore? Gattuso. Forza? Stam. Visione: Andrea Pirlo”. La visione nel calcio è in tante cose: nel sapere prima degli altri che cosa farà un compagno, nel godere per un passaggio più che per un gol, nel vedere un grande spazio laddove ce ne è uno piccolo.

 

Pirlo è stato il giocatore più raccontato dal Foglio negli ultimi dieci anni. Una volta, dopo la sconfitta della Juventus a Berlino contro il Barcellona in finale di Champions, Maurizio Crippa ha voluto accompagnarlo con dolcezza: “Perché è sempre stato un artigiano filosofo più che un funambolo, ‘Penso quindi gioco’ è il libro che ha scritto. Perché è uno che chiama gli assist, che sono la specialità più intelligente e difficile del calcio, ‘una felicità indotta’. E ci vuole un bel pensiero per usare parole così. Per essere un italiano così poco tipico, cioè originale.

 

E' sempre stato quello che è stato: il calcio. Gli altri sono qualche altra cosa. Lui è questo sport: classe, tocco di palla, tecnica, tattica…

Ecco, in questa citazione di una citazione c’è forse la chiave del perché il giorno dell’addio al calcio giocato di Pirlo, il mondo intero gli ha reso omaggio. Essere un induttore di felicità è una cosa che ti rende diverso. Nel calcio ce ne sono di varie forme: i grandi attaccanti lo sono, certo. Segnano e ti cambiano la giornata. Però i Pirlo valgono di più, perché la felicità indotta è doppia, a volte tripla. C’è quella estetica che riguarda la giocata in sé, c’è quella del compagno che riceve l’assist e segna, c’è quella del tifoso che anche in questo caso gode. Pirlo è stato questo: la normalità dell’eccezionalità. Rimarrà per sempre quella frase di Gennaro Gattuso: “Quando vedo giocare Pirlo, quando lo vedo col pallone tra i piedi, mi chiedo se io posso essere considerato davvero un calciatore”. Non c’è uno che conta davvero del calcio contemporaneo che non abbia detto qualcosa in occasione della sua ultima partita. Come a dire: chi conosce il calcio, riconosce la sua grandezza. Non è nella foga, né nella giocata forzata. E’ nella classe della sobrietà, della bellezza utile. Si fa una cosa perché serve, non per prendere l’applauso. Pirlo è stato l’idolo di molti e l’avversario rispettato di molti altri. Daniele De Rossi dice di non aver mai giocato con un centrocampista così bravo come lui, Xavi e Iniesta del Barcellona l’hanno più volte indicato come punto di riferimento estetico e tecnico. Sempre il giorno della finale Barcellona-Juventus di Berlino, è accaduto qualcosa di irripetibile. Lettura delle formazioni. Curva del Barcellona. Comincia: Buffon, fischi; Lichtsteiner, fischi; Barzagli, fischi; Bonucci, fischi; Evra, fischi; Marchisio, fischi, Pirlo, applausi. Capito? Applausi, applausi, applausi. All’avversario, prima della partita più importante dell’anno. Non è una cosa normale. Perché Pirlo non è stato un calciatore normale. E’ stato ciò che ogni allenatore di ogni scuola calcio del pianeta vorrebbe avere. Testa alta, destro e sinistro, tecnica perfetta, tempi, semplicità. Poi il rispetto fideistico di quel mantra che è di ogni allenatore in ciascuna squadra giovanile del pianeta: “Guarda i compagni prima di ricevere il pallone”. Pirlo vedeva tutto. Prima, appunto. E se uno non ci crede non ha bisogno di altro che di andarsi a riguardare le immagini. Bastano due situazioni. La prima: Italia-Spagna dell’Europeo 2012. palla sette metri dentro la metà campo dell’Italia, finta di fermarsi, controllo in movimento con l’interno destro a superare Busquets, controllo di sinistro, passaggio in profondità sempre di sinistro. Una giocata di sei secondi e mezzo, senza mai tenere gli occhi bassi e senza fare un tocco più del necessario. Perché questa è la magia: vai in porta, amico. La seconda giocata è quella della semifinale Mondiale del 2006. Minuto 118: stop di petto, destro, sinistro, sinistro, tiro, deviato in corner. E subito dopo angolo, respinta, a lui: controllo di sinistro, poi destro, destro, destro, testa alta, mezzo tacco-mezzo interno dentro per Grosso. No look: sguardo da una parte, passaggio dall’altra.

 

La timidezza è l'altra faccia del genio. Non c'entra con la modestia: l'arroganza del talento non ha bisogno dell'arroganza dei modi

Tutti quelli che non sono stati Pirlo hanno sognato una volta di fare qualcosa del genere. Vale un gol, per chi ama il calcio. Vale la celebrazione continua e perpetua. Quel tocco è l’educazione sentimentale di questo sport. Perché un altro, uno con i piedi suoi, quella palla l’avrebbe calciata in porta. Pirlo no, perché ha imparato che il risultato conta più della gloria, che un assist può valere quanto un gol. Pirlo è la dimostrazione che la classe è in quello che pensi, prima che in quello che fai. Che il calcio intelligente vince sul calcio dell’istinto. Che il calcio elegante sia qualcosa di diverso dal calcio estetico. Perché l’eleganza è un mezzo. E’ un modo di stare in campo che non ha a che fare con la bellezza fine a se stessa, ma con la bellezza funzionale: il gesto perfetto che porta a un risultato. Può essere un tocco di tre metri. Può essere un tiro come quello di Andrea Pirlo contro l’Atalanta di qualche anno fa allo Juventus Stadium: la maledetta in movimento, l’hanno chiamata. Ovvero il modo con cui batte solitamente le punizioni, cioè con le tre dita, facendo fare alla palla l’ascensore giù-su-giù, ma fatta con la palla in gioco. Ecco, quella giocata era forse l’unico modo per ottenere quel risultato e la bellezza del gesto, del movimento sono lo strumento con cui quel risultato è stato ottenuto. Il calciatore elegante non è necessariamente il più figo. E’ un genio essenziale: se mi serve un tocco per fare ciò che voglio fare, per esempio mettere il compagno davanti al portiere, perché farne di più? E’ il talento della sottrazione, l’eleganza. Che fa venire in mente subito Fernando Redondo. E’ probabilmente il giocatore più elegante degli ultimi vent’anni, per qualcuno di sempre, e quel qualcuno si chiama Alex Ferguson oppure Jorge Valdano. Ecco, comunque Redondo era quella cosa lì, “one touch perfectionist”, come lo definì un po’ di tempo fa Simon Kuper sul Financial Times. Dalla e vai, anzi, dalla e non andare, perché il giocatore elegante spesso non ha bisogno di correre. L’eleganza è uno stile di gioco, è calcio: si può dire che sia in qualche modo sinonimo di lentezza. è la palla che deve girare, più che le gambe. E questo ha molto, moltissimo, a che fare con l’essere cresciuto in una scuola calcio, poi nelle giovanili di un club, poi in prima squadra di provincia, poi nelle grandi squadre. Cioè l’idea di essere cresciuto per diventare qualcuno, l’idea che il calcio debba essere un lavoro, oltre che una passione. Qui c’è tutta la storia di Pirlo, l’inversione della retorica del talento che va liberato, della classe che nasce con te. Pirlo l’ha smentito coi fatti, prima che con la sua voce. L’ha detto: non sarebbe stato quello che è se non fosse cresciuto in un’idea di calcio professionale. Perché tutti pensano che la porta girevole della vita sia stata retrocedere di venti metri, scendere da trequartista a regista. Vero, ma tutto ciò è potuto accadere perché ai tempi delle giovanili del Brescia aveva calibrato il suo gioco in funzione di un risultato collettivo e non di una medaglia individuale: non si torna indietro di venti metri se non ti hanno abituato a giocare per tutti, non ci si allontana dalla porta se non ti sei costruito un’identità che prescinde dalla giocata fine a se stessa. L’eleganza è altruismo interessato. E’ un servizio che rendi a te stesso e ai compagni. E’, come detto prima, prendere la palla e non guardarla, ma sapere sempre a chi darla. E’ toccare di prima, quando gli altri farebbero cinque o sei tocchi. E’ amare il pallone e per questo tenerlo il meno possibile. E’ un passaggio di due metri. E’ lanciare lungo, profondo, preciso che sa già dove arriverà il compagno che sta tagliando. Come quella volta a Torino, con la maglia del Brescia, contro la Juventus, evocata qualche giorno fa da Tommaso Pellizzari: “Se si chiede a Roberto Baggio qual è stato il suo gol più bello lui (che dovrebbe avere parecchio imbarazzo della scelta) risponde senza esitare: ‘Quello alla Juve, quando giocavo nel Brescia’. In effetti il suo tocco d’esterno destro al volo (a smorzare il pallone che gli arriva da dietro le spalle) con cui supera Van der Sar e poi segna, è di quelli che si possono riguardare all’infinito. Dopodiché, in quell’aprile del 2001, non è male nemmeno il lancio, dalla linea di centrocampo, che quel promettente ragazzo di non ancora di 22 anni gli mette sul piede, col pallone che gira al contrario, in modo da facilitare il tocco (ammesso che ne avesse bisogno) di Baggio”. E’ lì che in qualche modo è nato il Maestro, anche se ci sono voluti molti anni prima che nascesse il soprannome. Era stato preceduto da un altro, parimenti autorevole: “Professore”. Lo chiamò la prima volta così Ancelotti, quando decise di farlo arretrare di venti metri. Perché era mezzapunta, si sa. E diventò regista in quel Milan perfetto costruito da Ancelotti. In realtà anche Mazzone l’aveva fatto giocare così, ma vuoi mettere la differenza tra il Brescia e il Milan? Essere diventato il cervello di una squadra meravigliosa ha alimentato il suo essere meraviglioso, anche se a quanto pare fu Pirlo stesso a chiedere ad Ancelotti di provarlo lì: “Entrai nel suo spogliatoio e con molta franchezza gli esposi il mio piano. Lui mi disse: ‘Ok, proviamo. Ma ricordati che qui al Milan, in quel ruolo hanno giocato grandi campioni. Anche io’. Ci facemmo una risata e andammo a lavorare. Poi, dopo la prima partita al trofeo Berlusconi, Ancelotti mi fece un complimento incredibile. Disse che avevo giocato come un professore: diventai tutto rosso”.

 

Il giorno del suo addio al calcio giocato il mondo gli ha reso omaggio. Essere un induttore di felicità è una cosa che ti rende diverso

La timidezza è l’altra faccia del genio. Non c’entra con la modestia, quanto con il suo contrario: l’arroganza del talento non ha bisogno dell’arroganza dei modi. Quindi Pirlo schivo, che però viene ricordato da tutti i suoi compagni come cazzeggione e spiritoso nel chiuso di spogliatoi e ritiri. Quindi Pirlo che non ama le interviste. In una, rara, a Malcom Pagani per Undici disse: “Un conto è il campo e altro sono gli amici, la vita privata, l’ambito in cui non devo rendere conto a nessuno. Chi mi conosce sa che so scherzare, ma sa anche che non amo parlare troppo dopo le partite. Per me il calcio non è mai stato soltanto un gioco. Ci sono le regole e vanno rispettate. Ho incontrato tante teste calde che alla classe non riuscivano ad affiancare la disciplina e ho visto ragazzini presi per un orecchio dai vecchi dello spogliatoio al solo scopo di insegnargli che il rispetto non è uno slogan vuoto”. Qualche critica l’ha fatto arrabbiare, poi ha imparato a essere impermeabile: “Ce ne sono state talmente tante che se me la fossi presa mi sarei rovinato la salute. A volte devi fare finta di niente, non devi ascoltarle proprio, altrimenti davvero rischi di non campare più”. Ha vissuto a lungo a Brescia, dove è nato e dove potrebbe continuare a vivere adesso che ha smesso dopo 24 anni di calcio vero, giocato come raramente capita ai calciatori italiani passando per le tre grandi: Inter, Milan, Juventus. Ha cominciato presto: era in campo a 16 anni, esordiente in serie A. Erano lui e Roberto Baronio, tutti e due bresciani, figli di una società che li aveva allevati per poi venderli. Baronio era quello più forte: due anni più grande, capitano della Primavera. In un torneo di Viareggio c’erano tutti e due: Andrea aveva un caschetto da scodella. Era tutto tecnico e dribblomane, mezza punta. Li avevano spacciati così: Roberto, quello di ordine e di personalità, numero otto; Andrea quello telentuoso e tendenzialmente più imprevedibile, numero dieci. Domenica scorsa si sono rivisti in campo ed è stata la nemesi: Baronio è entrato nella Lazio quando il Milan vinceva già 5 a 1. Di fronte, ora che il ruolo è lo stesso. E’ il destino a essere opposto: Baronio s’è preso il dieci per sentirsi di nuovo forte; Pirlo quel numero se l’è tolto da una vita: ha scelto il 21, anonimo, riservato, insignificante perché tanto dieci lo è stato di fatto. Anzi, con lui quel numeri 21 ha avuto una dignità tutta sua: è diventato un simbolo di classe che fino a l’anno scorso è stato riconosciuto da colui che l’ha ereditato, ovvero Paulo Dybala.

 

Ha finito una settimana fa, Pirlo. A New York, perché anche nella scelta di dove sviluppare l’ultima parte del percorso da calciatore è stato elegante: qualche soldo in meno per un posto dove vivere di più. Ha scelto qualcosa che trasmettesse energia e bellezza. Ha scelto anche qui l’estetica funzionale. Non si ricorderanno giocate speciali del suo periodo newyorkese, ma si ricorderà che cosa è stato lui per la Major League Soccer: prima the Genius e poi the Maestro. Perché senza insegnare ha educato. A un calcio migliore.

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