Robert Mueller (foto LaPresse)

C'è un paese ostile che attacca la democrazia americana. Questo è il cuore dell'inchiesta

Paola Peduzzi

I due pianeti della politica americana sono di nuovo in collisione. Ma il punto è il ruolo destabilizzante della Russia, e le prove sono tante

Milano. I due pianeti sono di nuovo qui, Laura Inghram, star di Fox News, lo ha detto chiaro: se pensate che le prime incriminazioni dell’inchiesta guidata da Robert Mueller dimostrino qualcosa contro Donald Trump, “vivete su un altro pianeta”. L’altro pianeta è quello in cui si pensa che invece qualcosa sia successo, e che questo qualcosa non sia affatto una buona notizia per Trump. Questi due pianeti sono sempre gli stessi, dalla campagna presidenziale in poi, non c’è possibilità di comunicazione, non c’è possibilità di comprensione, c’è soltanto guerra politica, guerra personale, più o meno sporca. Ma quel che sfugge in questo momento di accuse e nervosismo è che la missione di Mueller – di cui molti chiedono la testa – non è fare un regime change negli Stati Uniti e sventolare il suo scalpo in diretta tv. La prima missione di Mueller è quella di investigare su come il governo russo ha interferito nel processo elettorale americano del 2016, e se c’è stato un coordinamento tra la Russia e i team elettorali dei candidati, in particolare con quello di Trump, che le elezioni le ha vinte ed è il presidente degli Stati Uniti. Questi due obiettivi sono molto diversi, anche se ovviamente l’esito è simile, perché mette in difficoltà – che genere di difficoltà è tutto da verificare – la presidenza Trump. Ma perdere di vista il punto di partenza dell’inchiesta è parecchio fuorviante: e si badi bene, non si vuole stabilire se una potenza straniera – la Russia – ha destabilizzato il processo democratico di un altro paese – l’America –, ma come l’ha fatto. Perché il se è già stato in molti modi dimostrato. Ancora ieri Mike Allen, nella sua newsletter mattutina di Axios, sottolineava alla fine del riassunto delle incriminazioni: “Ci sono zero dubbi – e montagne di nuove prove – sul fatto che la Russia abbia manipolato le nostre elezioni. La prossima fase dimostrerà se Donald Trump stesso era a conoscenza o coinvolto, o se avesse qualche interesse a farlo – e in che misura le più potenti aziende d’America hanno abilitato questa manipolazione”.

 

La solita russofobia dei liberal atlantisti? Non esattamente. L’intelligence americana ha portato prove di questa ingerenza prima all’Amministrazione Obama e poi all’Amministrazione Trump. Mike Pompeo, attuale direttore della Cia, durante le audizioni di conferma a inizio anno alla commissione Intelligence del Senato, disse: “E’ piuttosto chiaro quel che è accaduto con il coinvolgimento russo nell’hackeraggio di informazioni che aveva l’obiettivo di influenzare la democrazia americana. Si è trattato di un’azione aggressiva fatta dalla leadership della Russia”. James Comey, che è stato trattato come un gentiluomo dai trumpiani finché accusava la Clinton e ora è il nemico numero uno, ma comunque è l’ex direttore dell’Fbi, al Congresso l’8 giugno ha dichiarato: “La Russia ha interferito con il nostro ciclo elettorale del 2016. L’ha fatto con un obiettivo. L’ha fatto in modo sofisticato. L’ha fatto con uno straordinario impegno tecnico. Non c’è dubbio su questo”. L’ammiraglio Mike Rogers, capo dell’Nsa, ha detto a giugno al Senato: “Continuiamo a vedere attività simili a quelle identificate e sottolineate nel report di gennaio. Gran parte di quelle operazioni sta continuando”. Nel report del gennaio di quest’anno – commissionato dopo la vittoria di Trump dall’ex presidente Obama e poi presentato a Trump qualche giorno prima del suo insediamento – la Cia, l’Fbi e l’ufficio del direttore della National Intelligence stabilivano, “con un alto grado di sicurezza”, che la Russia aveva messo a punto una campagna cyber per svilire la fiducia pubblica nel processo democratico americano, “denigrando” Hillary Clinton e “sviluppando una chiara preferenza per Trump”. Furono rese pubbliche quattordici pagine di quel documento, le parti classificate entravano nel dettaglio dell’ingerenza ma riguardando la sicurezza nazionale furono presentate soltanto al presidente.

 

La manipolazione è stata già dimostrata dall’intelligence e in queste ore anche i colossi tech stanno rivelando altri dettagli: gli agenti russi che volevano destabilizzare gli elettori americani – ha scritto il New York Times – hanno disseminato post che hanno raggiunto 126 milioni di utenti Facebook; hanno pubblicato 131 mila messaggi su Twitter; hanno caricato mille video su YouTube. Le attività di destabilizzazione da parte della Russia continuano: all’inizio di ottobre, l’intelligence israeliana ha assistito in tempo reale al tentativo di hacker legati al governo russo di entrare in vari computer per cercare i nomi dei codici dei programmi dell’intelligence americana. Le prove dell’ingerenza si ammonticchiano: come scrive l’Economist, “è Trump che rimane costantemente e inspiegabilmente disinteressato rispetto alla Russia e alla possibilità che abbia attaccato la democrazia americana”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi