Forza padroncini

Stefano Cingolani

Una ripresa che è quasi boom. Pullulano i fili d’erba che diventano cespugli: piccole imprese crescono, anche se non ancora abbastanza

“Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo” (Carlo Maria Cipolla)

 

Ripresa? E se fosse un mini boom? Più tempo passa più i dati migliorano. Il prodotto lordo finirà l’anno con un ritmo di crescita dell’1,4 per cento che si trascina sul 2018 e anche oltre. Il reddito disponibile delle famiglie salirà di due punti e il reddito pro capite, secondo le ultime proiezioni del Cer (Centro Europa Ricerche), supererà il livello ante crisi di ben cinque punti entro il 2019. La domanda interna, dunque, darà sostanza alla domanda estera: le esportazioni viaggiano al ritmo del 4 per cento e l’avanzo commerciale raggiungerà il 3,5 per cento rispetto al prodotto lordo. Merci che escono, ricchezza che entra. Dunque, c’è un’occasione d’oro. Il problema è non sprecarla. Per questo occorre che Mario Draghi non cambi la politica monetaria e che Pier Carlo Padoan faccia slittare ancora l’aumento dell’Iva, cioè la clausola di salvaguardia che da anni pende sulla testa della economia italiana come la spada appesa sul capo di Damocle. La terza condizione è che le imprese siano messe in grado di crescere, aumentando il prodotto e tornando ad assumere. E per imprese si deve intendere non solo le quattromila considerate grandi (con oltre 250 dipendenti), ma quel tessuto di quattro milioni di aziende con almeno dieci addetti dalle quali viene il 90 per cento della produzione manifatturiera, una percentuale superiore alla media europea anche se ci si avvicina la Germania con circa 3,5 milioni di imprese di taglia minore.

 

Per la prima volta dal 2010 il saldo tra aziende aperte e chiuse è positivo. Maiolini (Banca Igea): c'è una nuova filosofia del credito

La selezione non finisce mai, è la legge del mercato, ma il grosso è fatto. Per la prima volta dal 2010 il saldo tra aziende aperte e chiuse è tornato positivo in tutto il comparto delle piccole e medie imprese, il balzo della produzione industriale si rispecchia nel tasso di natalità del grande esercito industriale che non è più di riserva. Perché non sono solo i big a tirare la ripresa. Sul Foglio del sabato, il 9 settembre scorso, abbiamo raccontato chi sono i padroni della ripresa. Ma per portare l’insieme del paese fuori dalla sua decennale stagnazione contano forse ancor di più i padroncini. L’aumento della produzione industriale (+4,4 per cento tra luglio di quest’anno e lo stesso mese del 2016) non è frutto di un drappello d’avanguardia che ha moltiplicato il suo valore in Borsa e il suo fatturato nonostante la lunga recessione.

 

Un termometro importante per misurare lo stato di salute delle imprese riguarda i crediti in sofferenza. Le ultime rilevazioni che riguardano luglio confermano un andamento discendente: meno 46 per cento in un anno per le famiglie che producono, meno 58 per cento per l’intera economia. Lo stock complessivo è arrivato a 173,6 miliardi, quelli netti sono a 65 miliardi, avvicinandosi alla media europea. “Siamo a una svolta”, ha dichiarato Pier Carlo Padoan. Ma al ministro dell’Economia non sfugge che accanto ai tanti segni più c’è un preoccupante segno meno, i prestiti alle imprese continuano a scendere del 3,5 per cento (i dati sono di giugno e luglio) e il credito all’insieme dell’economia resta negativo. Sembra una contraddizione se si inforcano gli occhiali del macroeconomista, non è così se si entra nei meandri del sistema bancario. “Oggi le banche hanno priorità diverse: ripulire i bilanci, rafforzare il capitale e gestire la grande riconversione – spiega Francesco Maiolini, direttore generale di Banca Igea –. Per chi è nato e si è sviluppato negli ultimi anni, invece, l’obiettivo è consolidare il rapporto con il territorio per radicarsi sempre più ed espandere l’attività. Queste nuove banche sono in grado di selezionare nel dettaglio i clienti e possono permettersi di espandere gli impieghi anche in misura consistente anche in aree del paese che sono rimaste tagliate fuori dalla ripresa come il Mezzogiorno, ma nelle quali ci sono grandissime opportunità inespresse”.

 

Una stima circostanziata viene dal Cerved, che valuta la solvibilità e il rischio di credito, cioè i due indicatori chiave per la salute finanziaria di una qualsiasi azienda piccola o grande che sia. In base ai bilanci depositati da imprese (non solo industriali) che hanno da 10 a 250 dipendenti e da 2 a 50 milioni di fatturato, l’istituto ha contato 136.114 società, tra le quali 112.378 piccole e 23.736 medie. Nel loro insieme hanno generato ricavi pari a 852 miliardi di euro (circa la metà del prodotto interno lordo) con un valore aggiunto di 196 miliardi di euro (pari al 12 per cento del pil) e hanno contratto debiti finanziari per soli 240 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 37 per cento in termini di fatturato, per il 41 per cento in termini di valore aggiunto, per il 29 per cento in termini di debiti finanziari. “E’ terminata la fase di selezione dura, con le aziende più deboli espulse dal mercato, e ci sono chiari segni di miglioramento – commenta Marco Nespolo, amministratore delegato del gruppo –. Le piccole e medie imprese sono più solide, anche se molta strada deve ancora essere fatta per recuperare la redditività pre-crisi”. La loro capacità competitiva è fuori discussione e inoltre non bisogna dimenticare che dietro le tremila grandi imprese presenti in Italia esiste una filiera di subfornitori di grande eccellenza.

 

La Confartigianato nel suo rapporto annuale scrive che nel 2016 sono nate 319 aziende artigiane al giorno. L’export è stato da record: 117,4 miliardi di prodotti (1,5 miliardi in più sul 2015). I piccoli imprenditori spendono 5 miliardi all’anno in innovazione, 6.600 euro per addetto, il 6,5 per cento sopra la media di tutte le imprese. Quanto a produttività, in tre anni le piccole imprese manifatturiere hanno fatto meglio (+10,7 per cento) delle grandi imprese italiane (+1,6 per cento) e delle piccole aziende tedesche (+0,8 per cento). Anche l’esercito di startup e Pmi innovative è pronto a recitare la sua parte, non solo con la componente ufficiale, composta dalle circa 6 mila società iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese; ma anche con la componente “nascosta” scoperta dal Cerved: oltre 10 mila aziende non iscritte che hanno comunque un elevato profilo di innovazione o un potenziale innovativo da esprimere.

 

E’ tornato, insomma, il pullulare dei fili d’erba che diventano cespugli cantato dal Censis? In realtà lo stesso istituto fondato da Giuseppe De Rita sottolinea che oggi comanda la rete e i distretti si stanno dotando di tentacoli per agganciarsi alla nuova struttura. Tuttavia le maglie sono strette, spesso strettissime al centro-nord e s’allargano sempre più scendendo sotto Roma. Il dualismo non è superato e si ripropone: anche se il mezzogiorno assomiglia alla pelle di un gattopardo, resta indietro di una generazione. Frutto del passato? Non solo, basti vedere dove nasce il nuovo che prepara il futuro. Le province con maggiore concentrazione di piccole imprese innovative sono Trento, Trieste, Ancona e Pordenone, insomma nord est e fascia adriatica. Torino è la numero uno per presenza di piccole e medie imprese sul totale dell’industria e al settimo posto per le startup. Le due Italie sono diventate più lontane, a sud spunta Cagliari seguita da Napoli.

 

Qual è il menù per una piccola e media impresa che funzioni? Specializzarsi e diventare leader possibilmente mondiale in quella nicchia; fare leva sui legami familiari; mantenere un’atmosfera familiare tra i dipendenti; sviluppare in continuazione il mestiere, l’abilità di fare al meglio il proprio prodotto. Sembra una ricetta confezionata nelle Marche o nel Friuli, invece l’abbiamo presa da “I sette segreti della Germania” pubblicato dalla Oxford University Press e si riferisce all’ “esercito dimenticato”, Il Mittelstand, quella schiera di 3,5 milioni di piccole e medie imprese che sono il tronco robusto dell’industria tedesca. E questo corpaccione manifatturiero in Germania e in Italia è sempre più simile. Anche se i tedeschi conservano gelosamente la fabbrica più grande del mondo, quella della Volkswagen a Wolfsburg, e gli italiani hanno smantellato la Fiat Mirafiori a Torino.

 

Stanno spuntando nuovi modi per aggirare la zavorra di servizi e Pubblica amministrazione. Veicoli alternativi ai supermercati bancari

Piccole imprese crescono, insomma, più solide e robuste di prima? No, non crescono, non abbastanza, è questo il problema. “Noi corriamo, tutto il resto ci frena”, si lamenta Giorgio Merletti, presidente della Confartigianato. Che cosa è il resto? E’ il “sistema” tanto vituperato. Qualche cifra e qualche confronto preso dal rapporto della principale organizzazione di categoria. Il carico fiscale arriva al 43 per cento. Soltanto la Francia ci supera nella zona euro. In pratica si pagano 24,3 miliardi di tasse in più rispetto alla media europea. Per le piccole imprese il prelievo maggiore si registra nei comuni: più sono inefficienti e più pesante è l’onere. Tra Imu, Tasi e addizionale Irpef un piccolo imprenditore versa 4.373 euro l’anno. Il cuneo fiscale sul costo del lavoro dipendente – pari al 47,8 per cento – è 11,8 punti superiore alla media Ocse. I fattori di produzione sono più cari rispetto ai concorrenti europei; è peggiore la tassazione dell’energia (2,8 per cento del pil, superiore di 0,9 punti alla media dell’Eurozona) e il prezzo del gasolio registra un record negativi con 1,128 euro al litro, il più alto nei paesi dell’euro. Senza parlare poi dell’elettricità che costa alle piccole imprese un extra pari al 25,6 per cento. Persino le tariffe per la raccolta dei rifiuti sono aumentate negli ultimi cinque anni del 18,7 per cento rispetto al 7,9 per cento medio in Europa. E i comuni italiani in media non sono certo più puliti di quelli degli altri paesi del nord e del sud: basta andare in Andalusia e in Campania.

 

“Le piccole medie imprese italiane sono la vera fabbrica dell’Europa e credere nel loro sviluppo è il primo passo per creare valore e lavoro nel nostro Paese”, dice con orgoglio Alberto Baban presidente dei piccoli imprenditori associati alla Confindustria. Ma… e qui comincia la litania degli avversativi. Appena il 15,2 per cento delle aziende accede alla banda larga ad alta velocità (31,7 per cento nella media europea), mentre i Comuni gestiscono online solo il 3 per cento dei servizi richiesti da cittadini e imprenditori. La Pubblica amministrazione fa aspettare in media 95 giorni per onorare le fatture per beni e servizi richiesti alle pmi (il debito commerciale accumulato è pari a 64 miliardi). Nell’Unione europea siamo a 46 giorni e qui non c’entra nulla la tecnocrazia di Bruxelles.

 

Il sistema per il piccolo imprenditore ha non solo il volto assonnato del burocrate o lo sguardo rapace del gabelliere, ma anche la smorfia arcigna del banchiere quando rifiuta un prestito essenziale per tirare avanti. Nuovi strumenti sono nati per incanalare il denaro verso le imprese, per esempio i mini bond o i piani individuali di risparmio. “Ma finora i primi sono serviti a colmare in parte il vuoto apertosi nel canale principale, quello bancario – sottolinea Maiolini – mentre gli altri sono indirizzati verso impieghi più finanziari che industriali”. Gli artigiani in particolare lamentano che i finanziamenti bancari sono calati di 2,7 miliardi nel 2016 (-5,9 per cento) e di 13,5 miliardi (-24,3 per cento) sul 2011. Gli incentivi del piano industria 4.0 hanno aumentato gli ordinativi e l’acquisto di macchinari(+24,8 per cento le macchine utensili italiane e solo +5,6 per cento quelle provenienti da aziende estere). Tuttavia lo stesso ministro Carlo Calenda lamenta che non siano andate bene le misure sul venture capital e le start-up. Il numero maggiore di piccole e medie imprese innovative è nella telefonia mobile (1.183 società), seguono la cosiddetta eco-sostenibilità (975), le biotecnologie (564), il software e l’internet delle cose (459), le stampanti a tre dimensioni (384). Ma nell’insieme sono cresciute di soli due punti percentuali.

 

I "piccoli" spendono 5 miliardi all'anno in innovazione, 6.600 euro per addetto, il 6,5 per cento sopra la media di tutte le imprese"Noi corriamo, tutto il resto ci frena", si lamenta Merletti

Padroni e padroncini si sono messi a far girare i macchinari, però la loro locomotiva, per quanto più potente e moderna rispetto a prima della crisi, non basta a tirare l’intero treno italiano, dalle Alpi alla Sicilia. La mappa delle imprese, piccole o grandi che siano, mostra una massima concentrazione da Firenze in su, come abbiamo visto. I vagoni di coda, quelli più difficili da trainare per la loro pesantezza si chiamano servizi e Pubblica amministrazione. Ciò vale anche quando si parla di produttività. L’Italia resta penalizzata rispetto alla Germania e alla Francia, perché meno produttiva, si dice. Non è vero per le aziende manifatturiere, è macroscopico nel terziario e per quel che riguarda l’apparato dello stato, quello periferico e quello centrale (propri i dati sui “lacci e lacciuoli” che frenano le piccole aziende lo dimostrano).

 

Tutto questo è noto, anche se sembra una zavorra inattaccabile. La novità è che stanno spuntando modi nuovi per aggirarla. Uno strumento viene dal mondo digitale, come si sa. Un altro consiste nell’utilizzo di veicoli alternativi ai supermercati bancari. Un tempo gli istituti specializzati per il credito a medio e lungo termine facevano da polmone per dare ossigeno alle imprese medio-piccole che non avevano accesso alla Borsa. Dagli anni 90 in poi sono finiti nel tritacarne dei grandi gruppi pigliatutto e lì per lo più sono annegati. La crisi di quel modello generalista ha aperto spazi per creare aziende specializzate e vicine alle imprese, in grado non solo di fornire risorse finanziarie, ma di assisterle e di aiutarle a crescere, a esportare, ad aumentare di taglia. Perché piccolo è bello se poi si cresce; le nicchie sono fondamentali se fanno parte di una struttura non solo nazionale, ma mondiale; l’imprenditore schumpeteriano è una risorsa del paese se investe i suoi guadagni nell’azienda e non nel parco yacht e supercar. A chi chiede protezione, dazi e tariffe o magari una qualche riedizione del Gosplan serve sempre ricordare l’invito semplice quanto illuminante del grande storico Carlo Maria Cipolla: fate ancora cose belle che piacciono al mondo.

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