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-567 giorni alla Brexit

David Carretta

Tutto quello che c'è da tenere d'occhio per capire come va il negoziato (deludente) tra Regno Unito e Unione europea

Bruxelles. “Deluso” e “preoccupato”, il capo negoziatore per l’Unione europea per la Brexit, Michel Barnier, ieri ha annunciato di essere disponibile ad “accelerare e intensificare il ritmo” delle discussioni con la sua controparte britannica, David Davis, sull’uscita del Regno Unito. Il Consiglio europeo di ottobre, quando i capi di stato e di governo dei 27 dovranno decidere se sono stati fatti “sufficienti progressi” nei negoziati sul divorzio – diritti dei cittadini, conto della Brexit e Irlanda – per passare eventualmente a discutere delle relazioni future, si avvicina rapidamente. Il terzo round negoziale della scorsa settimana non ha permesso di fare passi avanti “decisivi”, aveva spiegato Barnier. L’ottimismo che aveva preceduto l’ultima serie di colloqui – durante l’estate gran parte degli analisti aveva intravisto un ammorbidimento della linea del governo conservatore di Theresa May – si è nuovamente trasformato in pessimismo. Mancano 567 giorni alla Brexit e, secondo alcuni protagonisti, i negoziati veri non sono ancora iniziati. Il Regno Unito ha presentato sette “position paper” e i cento negoziatori di Davis sono venuti tre volte in tre mesi a Bruxelles a discutere con la squadra Barnier. Ma non si è ancora arrivati “alla cosa vera”, ha spiegato Guy Verhofstadt, il coordinatore dell’Europarlamento per la Brexit: “Spero che a un certo punto si arrivi al negoziato”.

E’ il sintomo che Londra e Bruxelles vivono in emisferi politici separati. Malgrado la batosta elettorale, May vuole il “cake and eat” (la botte piena e la moglie ubriaca, ndr), convinta di poter ottener con facilità e a basso prezzo un accordo di libero scambio che permetta al Regno Unito di continuare a beneficiare di gran parte del mercato unico. L’Ue si sente in posizione di forza perché, in questo negoziato asimmetrico, i britannici sono quelli che hanno più da rimetterci da un mancato accordo. Così le imprese oltre Manica e sul continente si preparano al peggio.

 

Michael O’Leary, il boss di Ryanair, il 31 agosto ha confermato che la compagnia aerea a basso costo non intende pubblicare l’orario estivo del 2019 per il Regno Unito perché non ci saranno più voli verso l’Ue senza un accordo sulla Brexit. Ieri Reuters ha rivelato che la Bundesverband der Deutschen Industrie (la confederazione delle industrie tedesche, Bdi) ha istituito una task force per prepararsi alla “hard Brexit”. Il trasloco di banche e assicurazioni da Londra al continente continua: secondo la società di consulenza Oliver Wyman, la City potrebbe perdere 40 mila posti di lavoro.

 

Noti per il loro pragmatismo, i britannici agli occhi degli europei sono irriconoscibili. In una riunione del 12 luglio il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha messo in dubbio la “stabilità” di David, denunciando “l’apparente mancanza di coinvolgimento di quest’ultimo, che rischia di compromettere il successo dei negoziati” sulla Brexit. Per Simon Nixon del Wall Street Journal, il governo May si sta comportando come Yanis Varoufakis, il ministro delle Finanze del primo governo di Alexis Tsipras, che nel 2015 portò la Grecia sull’orlo della Brexit: i due “sprecarono sei mesi” cercando di scavalcare Bruxelles per negoziare direttamente con Berlino e Parigi. In modo simile, May e Davis “sembrano aver concluso che la chiave per la Brexit sia un accordo politico con i leader nazionali”, ha spiegato Nixon. Ma non accadrà, ha risposto il capo negoziatore Barnier: “Chi cerca di trovare la minima differenza tra me e i capi di stato dei 27 perde tempo”.

 

La ragione per cui i 27 non si divideranno sulla Brexit è tanto semplice quanto veniale: se dopo il 30 marzo 2019 il Regno Unito rifiuterà di onorare gli obblighi finanziari che ha assunto come membro dell’Ue, dalle casse del bilancio comunitario mancheranno undici miliardi di euro l’anno. Sono soldi che dovrebbero metterci (o a cui dovrebbero rinunciare) gli altri stati membri. “Nel 2013 i capi di stato e di governo si sono messi d’accordo su un quadro finanziario pluriennale per 7 anni che fissa le politiche e le spese”, ha spiegato Barnier. “Questo accordo è stato firmato dal primo ministro del Regno Unito, il signor Cameron” e “ogni decisione presa a 28 deve essere onorata a 28”. E i pagamenti – ha detto Barnier – possono esserci “uno, due, tre, a volte quattro anni” dopo il 2020, quando scadrà l’attuale quadro finanziario pluriennale. Il conto della Brexit è la questione più controversa dei negoziati attuali. Nell’ultimo round Davis ha scelto di contestare l’impianto della posizione europea, sostenendo che il Regno Unito si ritiene legalmente obbligato soltanto dalle spese previste nel bilancio annuale del 2019. Per l’Ue – che spera di recuperare tra i 60 e i 100 miliardi – è stata come una dichiarazione di guerra.

 

Diritti dei cittadini e Irlanda dovrebbero essere temi meno controversi. Bruxelles e Londra sono d’accordo sui grandi princìpi: tutelare chi si è trasferito grazie alla libera circolazione e preservare gli accordi di pace in Irlanda del nord. Ma entrambe le questioni sono altamente complesse, sui dettagli le posizioni sono lontane, mentre si accumulano sospetti reciproci. In un documento che riassume le trattative sui diritti dei cittadini, ci sono ancora 21 questioni in cui si registrano divergenze tra Barnier e Davis, senza tenere conto del ruolo della Corte europea di Giustizia, linea rossa invalicabile sia per l’Ue sia per il Regno Unito. Le lettere di espulsione inviate per errore dal ministero dell’Interno britannico a un centinaio di cittadini europei hanno danneggiato la fiducia. Il documento dello stesso ministero sulle restrizioni agli europei post Brexit ha avuto effetti ancor più deleteri. “Per gli italiani sarebbe un ritorno agli anni Cinquanta, quando dovevano mostrare il passaporto per entrare nel Regno Unito”, ha spiegato al Foglio una fonte coinvolta nei negoziati. Sull’Irlanda, la squadra Barnier sospetta che i britannici vogliano fare “moneta di scambio” per ottenere un accordo di libero scambio.

 

Il mantra dell’Ue è che senza un accordo di massima sul conto della Brexit, i diritti dei cittadini e l’Irlanda non si passerà ai negoziati sulla relazione futura. A Bruxelles ci si attende un cambio di linea di May in un discorso che dovrebbe essere pronunciato il 21 settembre, anche se sulla data e sui contenuti c’è il solito mistero, alimentato da una comunicazione del governo inglese volutamente criptica. Ma la premier britannica, che si sente più forte a Downing Street anche se ha il congresso dei conservatori a inizio ottobre e le lotte interne sono sempre più brutali, sembra convinta che saranno gli europei a cedere per primi. “I capi di stato e di governo dei 27 si sono lasciati del margine di apprezzamento per valutare se sono stati fatti progressi sufficienti”, spiega un negoziatore britannico. La maggior parte dei “position paper” di Londra riguarda la relazione futura post Brexit, con grande irritazione dell’Ue che sta assumendo una posizione sempre più dura sui princìpi e la sostanza dell’accordo di libero scambio. Il trattato sulle relazioni future “dovrà essere costruito su un equilibrio di diritti e obblighi”, ma per il Regno Unito “non sarà possibile avere i benefici del modello norvegese (il mercato unico, ndr) e le deboli costrizioni del modello canadese (l’accordo di libero scambio, ndr)”, ha avvertito Barnier.

 

Al di là del Consiglio europeo di ottobre, chiudere il grande negoziato sulla Brexit e il post Brexit in poco più di un anno appare sempre più difficile. O forse ha ragione O’Leary quando dice che con ogni probabilità gli aerei Ryanair continueranno a volare, “ma solo perché il Regno Unito alzerà bandiera bianca”.

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