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La crisi venezuelana aleggia sul viaggio di Papa Francesco in Colombia

Matteo Matzuzzi

Non solo Farc. Attese parole sul dramma che si sta consumando a Caracas. All’inizio dell’estate, il presidente della Conferenza episcopale venezuelana era stato chiaro: “Qui si è riaffermata una dittatura militare"

Roma. Il logo delle Farc proiettato nottetempo sulla facciata della cattedrale di Bogotà, alla vigilia del viaggio del Papa in Colombia, aveva già fatto capire quanto la spedizione di Francesco nel grande paese latinoamericano fosse delicata. Le scorie del fallito referendum dell’ottobre di un anno fa che si riprometteva di chiudere la sanguinosa stagione di guerra civile tra il governo e i guerriglieri, si fanno sentire. Sarebbe tuttavia superficiale ridurre tutto al non ancora sanato conflitto interno per il quale la Santa Sede s’è spesa assai, con il Papa in persona che riceveva in Vaticano l’attuale presidente Juan Manuel Santos e il predecessore Alvaro Uribe, un tempo legati e poi – proprio per la questione delle Farc – divenuti antagonisti, esortandoli a incamminarsi sul sentiero della pace.

 

Bergoglio non ha perso tempo, e nel primo dei suoi discorsi ufficiali (saranno una dozzina, omelie comprese, indice di un programma fitto), quello davanti alle autorità, ha subito indicato la missione che anima il viaggio: “Molto è il tempo passato nell’odio e nella vendetta… La solitudine di stare sempre gli uni contro gli altri si conta ormai a decenni e sa di cent’anni; non vogliamo che qualsiasi tipo di violenza restringa o annulli ancora una sola vita. E ho voluto venire fino a qui – ha aggiunto il Pontefice – per dirvi che non siete soli, che siamo tanti a volervi accompagnare in questo passo; questo viaggio vuole essere un incitamento per voi, un contributo che spiani un po’ il cammino verso la riconciliazione e la pace”.

 

E tutto lascia pensare che sarà questa la chiave, la guida che ispirerà il viaggio.

 

Ma ce n’è un’altra, che riporta al dramma politico e umanitario che sta vivendo il Venezuela. E’ in Colombia, infatti, che migliaia di venezuelani hanno trovato scampo e sono loro che dal Papa si attendono una parola che superi la prudente (ma costante) strategia diplomatica perseguita in questi mesi dalla Santa Sede. Francesco, tra le righe di un breve saluto ai giornalisti a bordo dell’aereo che lo portava in America del sud, ha lanciato qualche segnale, per ora piccolo, ma destinato ad assumere peso nei giorni a venire.

 

“Una preghiera anche per il Venezuela, perché vi si possa fare il dialogo e il paese trovi una bella stabilità, mediante il dialogo con tutti”. Il tema è sul tavolo, finora gestito dalla segreteria di stato, a fari spenti, tramite il segretario di stato Pietro Parolin, uno che gli affari di Caracas li conosce bene, essendo stato lì nunzio per anni. La posizione della chiesa venezuelana è chiara, anche se non mancano frange vicine al governo del presidente Nicolás Maduro, che non rispondono alle gerarchie locali né – tantomeno – a Roma. All’inizio dell’estate, il presidente della Conferenza episcopale venezuelana, mons. Diego Rafael Padrón Sánchez, era stato chiaro: “Qui c’è una dittatura, si è riaffermata una dittatura militare. C’è il fallimento totale del modello chavista, ormai comprovato da parecchie esperienze. Un modello che non ha saputo in passato e non sa nemmeno ora dare risposte alla gente”. La parola, ora, passa al Papa.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.