Matteo Salvini (foto LaPresse)

Il tramonto dei No Euro

Luciano Capone

Il capolinea del sovranismo monetario. Salvini & Di Maio volevano uscire, adesso non sanno come starci dentro

Roma. Nell’ultimo anno abbiamo assistito a un fenomeno parallelo e in un certo modo collegato: la rapida rivalutazione dell’euro e l’improvvisa svalutazione della proposta politica No euro. Il cambio con il dollaro attorno a 1,20 ha raggiunto il valore più alto dal 2015 a oggi e, contemporaneamente, i campioni dei partiti dell’exit in Italia, Luigi Di Maio per il M5s e Matteo Salvini per la Lega, hanno accantonato davanti all’“establishment” di Cernobbio ogni velleità sovranista. Uno dice che la Lega vuole dare l’ultima possibilità all’Europa e l’altro dice addirittura che il M5s non ha mai pensato di voler uscire dall’euro (proprio come poco fa ha assicurato che il movimento non è mai stato contro i vaccini). Niente più referendum e niente più uscita immediata in un weekend, non più primo punto del programma ma extrema ratio.

 

Eppure, secondo la teoria economica anni 50 dei No euro, proprio il rafforzamento dell’euro dovrebbe rendere ancora più insopportabile il peso insostenibile di una moneta già troppo forte. Invece accade il contrario, nel rialzo del prezzo dell’euro c’è anche la debolezza dei No euro. La moneta si rafforza perché l’Europa è relativamente un posto molto più stabile, esternamente per le turbolenze dell’America di Trump e del Regno Unito della Brexit, internamente per l’affievolimento delle forze disgregatrici sancito dalle sconfitte elettorali dei sovranisti, prima Geert Wilders in Olanda e poi Marine Le Pen in Francia. E ora i dati positivi sul pil dell’Eurozona confermano che, persino ora che è forte, l’euro non è un ostacolo alla crescita dei paesi periferici, Italia inclusa. Anzi.

 

La moneta unica ha passato momenti difficili, molti economisti (soprattutto dall’altra sponda dell’Atlantico) hanno a lungo preannunciato l’imminente break-up dell’euro. In realtà dal punto di vista più strettamente economico questo rischio è stato disinnescato nel 2012 dal Whatever it takes di Mario Draghi, ma il rischio politico è sopravvissuto alimentandosi delle difficoltà prodotte dalla crisi economia e ha raggiunto il su acme dopo il referendum sulla Brexit, quando il M5s e la Lega urlavano “Fuori dall’euro!” e “Basta euro!”. La valuta comune era l’origine di tutti i mali italiani e, di conseguenza, la soluzione non poteva essere che il recupero della sovranità monetaria.

 

Nel 2017 però il tema euro si è sempre più depotenziato fino a sparire dai radar della polemica politica, complici la ripresa economica ma anche le difficoltà e i fallimenti delle iniziative antieuropeiste più azzardate, dal referendum greco del 2015 a quello britannico dell’anno dopo. Soprattutto dopo la vittoria di Macron sulla Le Pen, con la conseguente crisi d’identità del Front national, piano piano i partiti populisti hanno sostituito il tema euro con il tema immigrati. Quanto più Di Maio e Salvini hanno deciso di parlare di immigrazione, di “taxi del mare” e di “invasione”, tanto meno hanno parlato di euro. Lentamente la “gabbia europea”, la “moneta sbagliata”, l’arma degli stati del nord contro quelli del sud, la trappola creata a tavolino per impoverire l’Italia e arricchire la Germania ha smesso di essere un problema. Ma lo stesso schema concettuale è stato applicato al tema dell’immigrazione, anch’esso descritto come un meccanismo disegnato dall’establishment per impoverire gli italiani e distruggere l’economia, con le ong al posto della finanza internazionale.

 

Paradossalmente però la sostituzione dell’euro con l’immigrazione come arma di propaganda è avvenuta in un anno in cui l’euro si è rafforzato del 14 per cento (e quindi avrebbe dovuto essere un problema sempre più grande secondo le teorie sovraniste) e l’immigrazione è calata drasticamente: da gennaio a settembre 2017 il numero di migranti sbarcati in Italia si è ridotto del 18 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, da 121 mila a 99 mila persone, per effetto dell’azione del governo e in particolare del ministro Minniti. Ciò non vuol dire che il flusso migratorio verso l’Italia non sia una criticità – esattamente come l’Eurozona non era un’area valutaria che funzionava alla perfezione – ma che i populisti per sopravvivere sono più a caccia di problemi da sventolare davanti agli occhi degli elettori che di soluzioni da offrire.

 

L’euro non è più considerato un problema dagli elettori e l’antieuropeismo è anzi diventato un ostacolo per vincere le elezioni. Così i populisti fanno una giravolta. A Cernobbio Luigi Di Maio si è limitato a fare il Testimone di Genova, ha cioè ripetuto cosa ha deciso Beppe Grillo dalla villa di Sant’Ilario, non più “fuori dall’euro” e “riprendiamoci la sovranità monetaria” ma “non vogliamo uscire dall’Europa” e “il referendum serve come peso contrattuale”. La trasformazione della posizione di Matteo Salvini è invece visibile dal libro che ha distribuito ai partecipanti del Forum Ambrosetti: non “Il tramonto dell’euro” di Alberto Bagnai (libro che consigliava fino a poco fa) e neppure “Oltre l’euro”, l’opuscolo scritto dal responsabile economico della Lega Claudio Borghi, ma il libro di Armando Siri sulla “Flat tax”. In questo modo Salvini sposta il messaggio da “meno euro” a “meno tasse” per riconnettersi con i ceti produttivi e gettare le basi per un’alleanza di governo con Berlusconi. Ma resta un problema di fondo per Lega e M5s. Per loro l’uscita dall’euro non era una proposta come le altre, ma la chiave di volta del programma economico: tutte le promesse di maggiore spesa o di minori tasse sarebbero state possibili solo fuori dalla “gabbia di Bruxelles”. Con la moneta sovrana potremo spendere quanto e come vorremo, dicevano. L’uscita dall’euro era l’escamotage di M5s e Lega per ignorare dai vincoli di bilancio. In questo senso il tramonto dei No euro coincide con un parziale ritorno alla realtà. Ora però dovranno adeguare anche i programmi e le promesse in deficit, altrimenti ci sarà solo il default. Dentro l’euro.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali