Kim Jong-un (foto LaPresse)

Che cosa vuole Kim Jong-un

Giulia Pompili

La Corea del nord punta subito al massimo della tensione per vincere il negoziato

Roma. Che cosa passi esattamente nella testa di Kim Jong-un non lo sa nessuno, ma possiamo provare a ricostruirlo. Non lo sa nessuno anche perché il giovane leader nordcoreano, da quando è salito al potere nel 2012, non si è mai mosso dalla Corea del nord, è sempre stato molto schivo, non ha mai incontrato un leader internazionale e nessun analista si è mai potuto avvicinare per farne un profilo, come si usava durante la Guerra fredda. Sappiamo da alcune rivelazioni di Wikileaks che nel 2011, quando il padre Kim Jong-il era malato e ci si aspettava la sua morte da un momento all’altro, l’intelligence sudcoreana era convinta che la Corea del nord sarebbe implosa, che la successione non sarebbe mai avvenuta completamente e che i disordini interni avrebbero fatto il resto. Nel frattempo, però, nessuno si era occupato dell’eventuale successore, tanto che le notizie sulla sua formazione sono frammentarie e quasi sempre non verificate. E’ anche per questo che l’Amministrazione di Barack Obama fu convinta a proseguire con la strategia della pazienza strategica: aumentare le sanzioni economiche fino all’isolamento definitivo, il collasso dell’economia, lo choc e poi un regime chance naturale. Non è andata così. Le sanzioni – lo sappiamo da vari report delle Nazioni Unite – fino a oggi non hanno funzionato granché. Non abbastanza da fermare il programma missilistico e nucleare. Il leader nordcoreano ha assunto credibilità e forza, e consolidato il suo potere.

 

Eppure, dal 2012 a oggi, tutto ciò che sappiamo di Kim Jong-un e di quello che vuole dalla comunità internazionale è una interpretazione degli unici dati di fatto: i test, le minacce, le dichiarazioni pubbliche. Da questo punto di vista, Kim è molto più coerente dell’Amministrazione di Donald Trump: nel discorso di Capodanno di quest’anno aveva detto che la Corea del nord aveva la tecnologia per completare la costruzione di un missile balistico intercontinentale. A distanza di sei mesi, ha autorizzato il test di due missili di quel tipo. E’ anche alla luce di questo che va letto il report pubblicato ieri dal Washington Post – quello che ha scatenato la reazione di Donald Trump.

 

Fino a oggi, la possibilità che la Corea del nord potesse dotarsi di una tecnologia nucleare e missilistica tale da essere considerata una minaccia era sempre stata considerata un’ipotesi remota. Lontana nel tempo. Poi è arrivato il primo missile balistico intercontinentale, il 4 luglio scorso, annunciato dallo stesso Kim sette mesi prima, e la violazione della cosiddetta «linea rossa» che aveva imposto un twitt di Donald Trump il 2 gennaio (“non succederà!”). Il 9 settembre del 2016, otto mesi dopo il precedente, la Corea del nord ha testato una Bomba nucleare nel sito di Punggye-ri. Nel confermare il successo del quinto test nucleare della sua storia atomica, l’agenzia di stampa nordcoreana, la Kcna, aveva detto che si trattava di una testata “in grado di essere istallata su un missile”. Dunque, secondo la propaganda ufficiale, Kim Jong-un è in possesso della tecnologia per miniaturizzare le testate sin dallo scorso anno.

 

Ma è davvero tutta propaganda? A giudicare dalle volte in cui la minimizzazione è stata smentita dai fatti, l’intelligence deve aver fatto un passo indietro. Joby Warrick, Ellen Nakashima e Anna Fifield hanno scritto ieri sul Washington Post che secondo un’analisi confidenziale datata 28 luglio scorso della Defense Intelligence Agency la Corea del nord ha effettivamente la capacità di miniaturizzare le testate e istallarle sui missili balistici intercontinentali. Niente che non fosse già nel sospetto di chiunque si occupi di affari nordcoreani, ma se è l’intelligence americana a crederlo, vuol dire che si è fatto un passo in avanti.

Ma perché Kim Jong-un vuole un missile atomico in grado di far saltare Washington, quando sa che la risposta a un eventuale attacco diretto porterebbe alla distruzione immediata della Corea del nord così come la conosciamo oggi?

Quando l’articolo del Washington Post è iniziato a circolare, ieri, il presidente Donald Trump si trovava nel suo golf club di Bedminster. Poi però ha convocato la stampa per fare una dichiarazione ufficiale sul traffico di droga e altri temi sul tavolo della presidenza. Alla fine, ha smesso di leggere il comunicato e ha risposto a una domanda sulla Corea del nord. Si è appoggiato sullo schienale della sedia, ha incrociato le braccia, in un gesto che chiunque definirebbe “di chiusura”, e ha detto: “La Corea del nord deve smetterla di minacciare gli Stati Uniti, o incontrerà il fuoco e la furia che il mondo non ha mai visto”. Un linguaggio più simile a quello delle dichiarazioni ufficiali di Kim Jong-un che a quelle di un presidente occidentale. E che cosa c’è di diverso in questa crisi con la Corea del nord l’ha spiegato in qualche modo ieri il senatore John McCain: il presidente americano, il leader del mondo libero, l’uomo più potente dell’alleanza occidentale, quando minaccia una risposta “che il mondo non ha mai visto” dovrebbe essere pronto a passare dalle parole ai fatti. Vuol dire essere pronti a fare la guerra a Pyongyang ed essere pronti a “sacrificare Seul”, la prima città nel mirino dei nordcoreani nel caso di rappresaglia.

 

Dopo le parole di Trump, la Kcna ha diffuso una contro-risposta: le nostre Forze armate stanno valutando con cautela l’ipotesi di lanciare missili a medio e corto raggio verso l’isola di Guam, manca solo l’autorizzazione di Kim Jong-un. L’Isola di Guam è territorio americano, l’avamposto militare statunitense nel Pacifico. Un eventuale attacco su quell’isola significherebbe un attacco diretto all’America, e in quel caso l’Amministrazione non avrebbe bisogno del voto del Congresso per reagire militarmente. E’ esattamente quello che vuole il leader nordcoreano: se Trump alza l’asticella della tensione, la alziamo anche noi, in un circolo vizioso e impossibile da fermare.

 

O meglio, un modo c’è. E’ dare alla Corea del nord quello che vuole: il riconoscimento de facto di potenza nucleare. Lo ha detto l’ex capo della Cia James Clapper ieri: per riaprire un dialogo con Pyongyang dobbiamo finirla di porre come unica condizione lo smantellamento dell’arsenale missilistico e nucleare. E’ anche per questo – oltre che per una retorica che fa bene ai fini della propaganda interna – che ieri la Corea del nord ha minacciato direttamente Guam: l’ipotesi di una guerra totale, sempre più concreta, ha fatto alzare più voci che stanno tentando in tutti i modi di scongiurare l’incidente. E tra queste voci c’è pure il segretario di stato Rex Tillerson, che visitando Guam di ritorno da Manila ha detto: gli americani dormano sonni tranquilli, non c’è nessuna minaccia imminente.

 

Un altro dettaglio non di poco conto, che allontana le similitudini che pure qualcuno ha sollevato con la situazione dell’Iraq nel 2003, è questo: se Washington dovesse cedere alle provocazioni, e farsi trascinare nella spirale delle minacce, l’intervento militare sarebbe inevitabile. Poniamo un incidente a Guam, e una reazione incommensurabilmente superiore dell’America. Il primo scenario sarebbe quello di una serie di strike che neutralizzino le testate atomiche nei bunker sotterranei nordcoreani. Ma la contro reazione di Pyongyang non sarebbe rivolta all’America, questa volta, ma alla Corea del sud e al Giappone. Attori non protagonisti di una crisi senza fine.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.