Carrefour, seconda catena mondiale di supermercati, è guidata da Alexandre Bompard, 44 anni

Effetto Macron

Stefano Cingolani

S’avanza in Francia una nuova leva di uomini d’affari e d’industria Hanno progetti ambiziosi, una strategia e ora uno sponsor politico

S’avanza in Francia uno strano soldato degli affari, un pédégé (presidente e direttore generale) o un manager (a ciascuno la sua definizione) che ha in mente idee nuove, progetti ambiziosi, gran sete di potere, una strategia e uno sponsor politico: Emmanuel Macron. Il Financial Times ha già coniato la scontata definizione “Macron generation”, in Francia gira la battuta su “les patrons derrière Macron”. Sono tutti tra i quaranta e cinquant’anni, per lo più uomini anche se finalmente il soffitto di cristallo si è aperto alle donne, guidano colossi come Carrefour, Axa, Publicis, Engie, Galéries Lafayette, Pernod Ricard, Havas, Danone, tanto per fare qualche nome e stanno mettendo in crisi la vecchia guardia del capitalismo d’oltralpe.

 

Un programma che
non esclude mire espansionistiche, anche in Asia e in America, dove i francesi sono rimasti indietro rispetto ai tedeschi

Ha qualcosa a che fare tutto ciò con quel che accade alla Telecom Italia o con la querelle per il controllo dei cantieri navali di St. Nazaire (i più grandi e importanti di Francia) da parte della Italcantieri? Lo ha. Anche se l’impatto può sembrare indiretto, la ricaduta esiste perché Macron ha un progetto, “spingere la Francia e l’Europa sulla strada dell’innovazione e delle riforme”, spiega Frank Bournois, decano della business school Escp Europe. Un programma che non esclude mire espansionistiche, non solo in Italia o in Europa, ma in Asia e in America, dove i francesi sono rimasti molto indietro rispetto ai tedeschi. Tutte le star del circo politico-mediatico italiano che ora frignano contro “il nuovo De Gaulle” e prima lo avevano esaltato come esempio, anzi come mito persino, ragionano seguendo slogan e luoghi comuni, invece di analizzare la realtà. Prima di arrivare alle conclusioni, però, raccontiamo i fatti.

 

Il personaggio da tenere d’occhio in modo particolare si chiama Alexandre Bompard, ha 44 anni e il 18 luglio ha preso le redini della seconda catena mondiale di supermercati, icona della Francia di successo: Carrefour che in Italia si batte per il primato con la Coop e la Esselunga. Il suo curriculum non può essere più classico: l’Ena, la scuola nazionale d’amministrazione, ispettore delle finanze, destinato a una classica carriera colbertista, da tecnocrate di stato, tanto che il suo mentore neogollista François Fillon del quale diventa segretario al ministero degli Affari sociali dal 2002 al 2004, gli propone un cursus honorum di tutto rispetto. Invece, si butta nel privato e nella televisione, Canal Plus poi Europe 1, una delle stazioni radio più importanti, tutti incarichi nei quali conta il rapporto con il pubblico, finché non arriva il salto nella distribuzione con Fnac che tutti conoscono come una sorta di supermercato per l’elettronica, ma ha un nome singolare e un’origine improbabile se non fossimo in Francia. Fnac è l’acronimo di Fédération nationale d’achat des cadres (Federazione nazionale d’acquisto per i quadri) ed è stata fondata nel 1954 a Parigi da due militanti trozkisti, André Essel e Max Théret. Più che militanti perché Théret era stato niente meno che la guardia del corpo del capo bolscevico esule in Francia dopo la rottura con Stalin. Combattente antifranchista in Spagna, membro della Resistenza in Francia, dopo la liberazione si butta negli affari, ma a modo suo e crea una organizzazione di acquisto che garantisce prezzi bassi per i lavoratori. Nel 1977 vende tutto e diventa uno dei principali finanziatori del Partito socialista preso in mano da François Mitterrand. Gli affari gli restano nel cuore e nel portafoglio, tanto che nel 1988 viene incastrato in uno scandalo di insider trading e condannato a due anni con la condizionale. Nel frattempo Fnac è stata assorbita nel gruppo creato da François Pinault (giovedì 27 l’ha venduto ai tedeschi di Metro).

 

A Parigi il filo rosso
della politica lega sempre i destini più disparati. La fuoriclasse Isabelle Kocher
al vertice di Gdf-Suez

Questa digressione può sembrare wikipedika, in realtà rivela come in Francia il filo rosso della politica lega sempre i destini più disparati. E sicuramente Bompard può essere definito un “macroniste” tanto quanto Isabelle Thabut maritata Kocher, che guida Engie, il gruppo energetico nato dalle nozze tra Gaz de France Suez ed è stata consigliere per gli affari industriali nel gabinetto di Lionel Jospin, primo ministro socialista dal 1999 al 2002. Il suo cv non è di ordinaria amministrazione nemmeno per un uomo (ingegnere minerario che in Francia è il massimo della ingegneria, scuola normale superiore della rue d’Ulm, anche qui il top, poi diploma approfondito di ottica quantistica) figuriamoci per una donna francese che oltre tutto non ha rinunciato alla famiglia (ha cinque figli). La geniale Isabelle sembrava indirizzata verso una brillante carriera accademica, invece va a lavorare nell’industria aerospaziale, nel gruppo Safran che costruisce motori. Nel 1997 viene chiamata al ministero dell’Economia da dove la sceglie Jospin. La fine della gauche plurielle la indirizza di nuovo nell’industria ed è a quel punto che entra in Gdf-Suez dove scala tutte le posizioni fino alla direzione generale. Nel maggio dello scorso anno diventa capo azienda non senza uno scontro strategico con il vecchio boss Gérard Mestrallet. Vendere le centrali termiche, uscire dal petrolio e dal gas, reinvestire tutto nelle fonti rinnovabili tradizionalmente rimaste ai margini nella Francia elettronucleare, questa è la scommessa della fuoriclasse Isabelle Kocher. E avrà ricadute anche in Italia, quinto paese nel portafoglio del gruppo, dove intende raddoppiare i clienti (tra l’altro è il secondo azionista di Acea, chissà ancora per quanto).

 

Di Thomas Buberl, 44 anni, gran capo del colosso assicurativo Axa non si conoscono affiliazioni politiche. Nato in Germania, è uno dei pochissimi stranieri alla guida di gruppi francesi. Ha una educazione internazionale (Germania, Svizzera, Inghilterra) e una carriera tutta nel ramo, ma il suo profilo sembra proprio ritagliato per far propaganda al nuovo asse franco-tedesco. Ben più avventuroso Arthur Sadoun che il mese scorso è stato nominato al vertice di Publicis, terza agenzia pubblicitaria al mondo. A 21 anni, nel 1992, appena laureato alla European Business School parte per il Cile, anche lui un cervello in fuga, ma in Francia non si piangono addosso anche perché per lo più ritornano. A Santiago fonda una sua agenzia pubblicitaria che poi vende sei anni dopo, rientra a Parigi, si prende il dottorato, va a lavorare alla Tbwa, tra le agenzie più importanti al mondo che fa parte della multinazionale americana Omnicom, e vince per un intero quadriennio il premio per il migliore pubblicitario di Francia.

 

Sadoun assomiglia anche fisicamente a un protagonista di Mad Men, la popolare serie televisiva americana sui pionieri della pubblicità negli anni Sessanta, gli uomini di Madison Avenue dove risiedevano tutte le maggiori compagnie di New York. Non gli manca nulla, è persino sposato con una stella della televisione. Ma Sadoun non è solo glamour così come Flavio Cattaneo non è solo Sabrina Ferilli: il giorno stesso del suo insediamento ha mandato in giro un video multilingue nel quale spiega la sua missione. Vedremo. Quel che ci interessa qui è rintracciare uno stile di comando che accomuna Sadoun agli altri della nuova generazione. Veloci, innovatori, aggressivi, preparati, con la mente tarata sul mondo e i piedi ben piantati in Francia. In fondo questo vale anche per Vincent Bolloré alle prese con una triplice campagna d’Italia (Mediobanca, Telecom e Mediaset) che si è trasformata in una gigantesca e costosa trappola finanziaria, giudiziaria, politica. Ora ha piazzato i suoi fidi al vertice di Telecom affidando le strategie ad Amos Genish, il cui compito è stringere l’alleanza con Canal+ all’insegna della convergenza tra contenuti e contenitore. Anche Genish, ex ufficiale israeliano che ha fatto fortuna in Brasile, seppure un po’ più anziano (ha 57 anni) risponde al nuovo paradigma manageriale che si sta diffondendo in Francia. Quando poi, come viene dato per certo, collocherà il primogenito Yannick, 37 anni, al vertice di Vivendi, dopo la fusione con Havas, Bolloré avrà fatto due passi avanti importanti per assumere il pieno comando e avvicinare il gruppo alla meta: diventare il Netflix dell’Europa meridionale.

 

Thomas Buberl,
gran capo del colosso assicurativo Axa.
Arthur Sadoun
alla guida della terza agenzia di pubblicità
del mondo

Modernizzazione ed espansione, dunque, sulle spalle di una nuova leva di uomini d’affari e d’industria. E la nazionalizzazione dei cantieri navali? Non è un passo indietro verso il passato piuttosto che un balzo nel futuro? Macron non ripercorre le orme del vecchio dirigismo che a parole voleva superare? Sì, ma a St. Nazaire si costruiscono anche le navi militari non solo i mostri da crociera, e il presidente francese vuole giocare la partita della difesa europea controllando direttamente tutte le carte in suo possesso, dalla force de frappe nucleare alla marina, dai parà ai cacciabombardieri, per non parlare dell’elettronica che è la chiave della difesa moderna. Forse una trattativa a tutto campo tra Italia e Francia potrebbe aprire nuove prospettive, anche se gli italiani hanno scelto da tempo la filiera anglo-americana tanto da preferire persino Boeing all’Airbus, a differenza da tedeschi e, nel loro piccolo, spagnoli. L’industria italiana, anche là dove ha fatto bene, s’è mossa senza una logica di lungo periodo. Anche la scelta di non entrare come azionisti nel consorzio europeo fu dettata in modo prevalente dalla necessità di colmare gli impianti di Pomigliano d’Arco grazie alle componenti costruite per la Boeing, come testimoniano i vecchi capi di Finmeccanica.

 

Questo ci riporta al punto di partenza. L’Italia è piena di ottimi uomini d’impresa, sono brillanti, efficienti, con il pelo sullo stomaco, ambiziosi e con la dose di avidità che contraddistingue il top manager. Di nomi se ne possono fare a bizzeffe. Cattaneo, pagato come Cristiano Ronaldo, è uno di questi. Molti di loro hanno fatto una brillante carriera all’estero. Vittorio Colao, espunto dal gruppo Rizzoli Corriere della Sera perché non era in sintonia con il complesso politico-editoriale al comando, guida da nove anni con innegabile successo Vodafone, uno dei maggiori gruppi mondiali di telecomunicazioni. Altri come Andrea Guerra dopo aver ben gestito la Luxottica, è stato chiamato a Palazzo Chigi da Matteo Renzi (breve e non fruttuosa esperienza di consigliere) e adesso cerca di portare Eataly, la brillante innovazione distributiva di Oscar Farinetti, verso nuovi e più sostanziosi lidi internazionali ispirandosi a Starbucks. Sono tutti capaci e stimati, ma sono capitani di ventura nella più schietta tradizione italiana, quella di Giovanni dalle Bande Nere che combatté per i francesi o di Ettore Fieramosca che li aveva sconfitti a Barletta. Ingegno, preparazione, esperienza non mancano loro, parlano mediamente l’inglese meglio dei francesi, ma agiscono in ordine sparso, al di fuori di qualsiasi logica di sistema, senza una meta che non sia la personale carriera.

 

Non fanno così anche altri? E chi? Certo non i tedeschi né gli spagnoli, stando non solo alla loro storia, ma alle cronache di questi anni. E soprattutto non gli americani. Basti ricordare il famoso summit dei grandi banchieri chiamati a raccolta nel settembre 2008 dopo il fallimento di Lehman Brothers dal segretario al Tesoro Hank Paulson (ex banchiere d’affari a Goldman Sachs) e dal capo della Banca centrale Ben Bernanke (preclaro professore di Economia a Princeton) per risolvere tutti insieme, assumendosi ciascuno la propria quota di fardello, il collasso dell’intero sistema bancario e finanziario. Una riunione drammatica, anche se meno colorita di quella convocata nel 1907 per analoghe ragioni da John Pierpont Morgan che, narrano i cantastorie, li chiuse nel suo ufficio di Manhattan e gettò la chiave.

 

I dieci principali gruppi manifatturieri italiani hanno un fatturato
di 84 miliardi. I primi dieci francesi arrivano
a 327 miliardi

Donald Trump ha chiamato attorno a sé banchieri d’affari e capitani d’industria per tutelare gli interessi del suo paese. Quanto meno pensa di farlo perché la strategia America First, segnata dal funesto ricordo dello stesso slogan scelto nel 1940 da Charles Lindbergh per il suo progetto isolazionista e filo-hitleriano, si sta rivelando un boomerang. Macron dalla sua poltrona all’Eliseo sceglie gli interessi francesi e incoraggia gli uomini che possono perseguirli in modo efficiente e in sintonia con i tempi nuovi. Paolo Gentiloni deve individuare gli interessi italiani, quelli di fondo non solo quelli del momento, e scegliere chi e come può perseguirli, sia negli affari sia nella politica estera. Non è facile, bisogna riconoscerlo, con l’eredità che si ritrova, fatta di doppiezze ballerine, fughe in avanti e precipitose ritirate, oscillando quando verso est quando verso ovest, consumando tutto nella tattica diplomatica. Eppure c’è sempre un momento per dire basta e ricominciare.

 

“L’imprenditoria non deve essere aiutata – ha detto recentemente Guerra –. I nostri padri hanno fatto grande l’Italia, dopo una guerra. Oggi siamo un po’ troppo viziati. Bisogna fare ricerca, lavorare, amare la diversità, avere persone brave a bordo”. Parole sacrosante, ma dove va il lavoro senza il capitale? L’ultimo rapporto di R&S, il centro studi di Mediobanca, sui grandi gruppi, vede l’uscita di campioni nazionali: Exor (Fiat-Chrysler) che ha sede legale in Olanda, Pirelli acquisita dai cinesi, Italcementi (Pesenti) venduta ai tedeschi, Luxottica ormai accasata a Parigi con Essilor. La classifica diventa un vero monumento al nanismo industriale. I dieci principali gruppi manifatturieri italiani, con in testa quel che rimane della Fiat, hanno un fatturato di 84 miliardi di euro. I primi dieci francesi, guidati dalla Peugeot arrivano a 327 miliardi, i tedeschi con in testa la Volkswagen, sono a una quota stratosferica, ben 767 miliardi. E’ vero che l’Italia resta il secondo paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania, ma le microimprese del Bel Paese vanno ciascuna per proprio conto. Sull’arena mondiale il peso economico e politico è dato non solo, ma anche (e spesso in modo prevalente) dalla taglia. Quello italiano è un esercito di fantaccini in confronto ad armate di mezzi pesanti. E, come abbiamo tragicamente sperimentato, otto milioni di baionette non fanno vincere nessuna guerra; anzi, oggi come oggi, non servono nemmeno a difendere i confini.