Iraq, premier Abadi proclama: Mosul liberata (foto LaPresse)

E ora come si impedisce il ritorno dello Stato islamico a Mosul?

Daniele Raineri

Dopo la cacciata dell'Isis dalla sua capitale, ecco le notizie per gli ottimisti e le ragioni per i pessimisti

Roma. Ieri il premier iracheno, Haider al Abadi, ha annunciato la vittoria a Mosul “contro le tenebre, la brutalità e il terrorismo” con addosso la tuta nera delle forze speciali che in nove mesi hanno liberato la città. Poi ha sventolato la bandiera dell’Iraq. È ufficiale, lo Stato islamico subisce una sconfitta disastrosa e perde la sua capitale di fatto ed è un raro momento di orgoglio nazionale che l’Iraq aspettava da tre anni. Ora quante ragioni ci sono per essere ottimisti e quante per essere pessimisti? Cominciamo dalla buone notizie.

 

 

Alcune condizioni che nel 2014 portarono lo Stato islamico al potere non ci sono più. L’orda dei foreign fighters che arrivava da fuori per combattere sotto la bandiera di Abu Bakr al Baghdadi si è assottigliata e secondo i dati del Pentagono è passata dai millecinquecento volontari freschi al mese di tre anni fa ai meno di cento di oggi. Il calo di vocazioni è dovuto un po’ al fatto che è materialmente più difficile partire per andare in Iraq e Siria, un po’ alla crisi della propaganda che non è più così forte come prima e un po’ anche al fatto che ora è meno convincente: la fase dell’espansione dilagante e degli stupri di massa contro le yazide è finita, ha lasciato il posto agli assedi in pochi chilometri quadrati che durano per mesi sotto la minaccia dei jet americani.

È un contesto assai meno allettante, che mette fuori gioco gli opportunisti e lascia in campo soltanto gli irriducibili fanatici. Anche tutto il materiale di propaganda che circolava in libertà sui social media si è ridotto da fiume a rivolo grazie all’attenzione maggiore delle grandi compagnie di internet. Adesso a cercare si trova sempre qualcosa ma il ritmo a cui viene cancellato è molto più rapido rispetto al passato. In pratica i nuovi video dello Stato islamico arrivano su internet e sono eliminati nel giro di un’ora, sono diventati roba per collezionisti. La sorveglianza nei paesi occidentali è aumentata a dismisura: lo stesso comportamento che nel 2012 sarebbe passato inosservato oggi fa scattare subito l’allarme. Provate a scaricare un inno dell’Isis sul vostro computer e a prenotare un volo per la Turchia in un paese europeo, ci sono chance alte che i servizi segreti vi busseranno alla porta in giornata.

  

Mosul, le rovine della moschea di Al Nuri (foto LaPresse)


 

Veniamo ai motivi di pessimismo. Il generale Michael Nagata, che comanda le forze speciali americane impegnate nella caccia ai leader islamisti, dice che lo Stato islamico è stato sottovalutato: “Quando penso a quanti danni gli abbiamo inflitto e al fatto che tuttavia loro sono ancora operativi, e anche capaci di dirigere attacchi internazionali, allora devo concludere che non abbiamo ancora compreso appieno la scala e la forza di questo fenomeno” (la fonte è un’intervista recente al Centro antiterrorismo di West Point). Il Pentagono sostiene di avere ucciso sessantamila combattenti dello Stato islamico, che è un’enormità, nel 2014 le stime parlavano di trentamila e qui la cifra si riferisce soltanto a quelli già uccisi.

I tre anni che ci sono voluti per ricacciare lo Stato islamico nella clandestinità a Mosul (ma ci sono aree dove ancora governa) aprono una questione: se il gruppo è stato capace di risorgere dopo la crisi del 2010, quando era stato sconfitto, non controllava più nulla e i suoi leader erano arrestati o uccisi tutti, anche i più importanti, che succederà adesso che parte da un livello di forze molto superiore? Nel 2010 furono commessi molti errori. Per esempio l’allora primo ministro iracheno Nouri al Maliki sciolse e lasciò senza stipendio le milizie sunnite che si erano rivoltate (con efficienza letale) contro lo Stato islamico. Anche il ritiro delle truppe americane ordinato in fretta nel 2011 contribuì a ricreare le condizioni in cui lo Stato islamico prolifera. La scommessa è non ricreare quelle condizioni ma non è facile.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)