Furia cieca contro il Ceta

Luciano Capone

Niente è più sciocco dell’opposizione a un accordo commerciale da parte di un paese esportatore come l’Italia. Il deal Europa-Canada non parla di lenticchie ma di macchinari, automobili, navi, mobili. Cioè di Made in Italy

C’è qualcosa di più insensato dell’opposizione a un trattato di libero scambio da parte di un paese esportatore? Probabilmente farlo in nome della difesa del made in Italy. Che è proprio ciò che sta accadendo nel nostro paese. Il 25 luglio il Senato dovrebbe approvate il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato commerciale tra Unione europea e Canada, e dovrebbe farlo con la maggioranza trasversale che si è già espressa favorevolmente nella commissione Affari esteri: Pd, centristi e Forza Italia. I numeri ci sono, ma le forze favorevoli sono timide nel difendere pubblicamente la scelta, lasciando completamente il campo del confronto pubblico alla narrazione dell’ampio fronte sovranista e no global, che va dal M5s alla Lega nord, da Sinistra italiana a Fratelli d’Italia, passando per Mdp, Cgil, Coldiretti, sigle ambientaliste e un paio di governatori Pd come Nicola Zingaretti e Michele Emiliano. La propaganda della grande coalizione populista ha trasformato il Ceta in un accordo agricolo ad alto contenuto di bufale (invasioni di multinazionali, pesticidi, carne agli ormoni e Ogm – mancano solo le cavallette).

 

Prima di discutere dei tanti elementi positivi per il settore agroalimentare italiano previsti dall’accordo, bisognerebbe ricordare che l’Italia non è un paese agricolo, ma una potenza manifatturiera, e il Ceta è un accordo economico globale, di cui l’agricoltura è solo una parte. Qualche dato per dare il senso delle proporzioni e delle cifre in gioco.

L’Italia è l’ottavo fornitore mondiale del Canada con un volume di interscambio bilaterale di oltre 5 miliardi di euro nel 2015, 3,7 miliardi di export e un avanzo commerciale di 2,2 miliardi. E non esportiamo lenticchie e patate, ma macchinari, automobili, navi, aerei, piastrelle, calzature, farmaci, mobili, rubinetti, valvole, pompe e compressori. Il Ceta liberalizza il mercato delle merci con un abbattimento del 99 per cento dei dazi, offrendo quindi enormi possibilità di espansione all’industria manifatturiera italiana. Qualche esempio. Verranno abbattute le barriere tariffarie su macchinari industriali (1 miliardo di export e dazi fino al 9,5 per cento), mobili (128 milioni, dazi al 9,5 per cento), abbigliamento (400 milioni e dazi fino al 20 per cento), prodotti in pelle (50 milioni e dazi al 13 per cento). Questo vuol dire per la nostra economia meno barriere e più opportunità, meno tasse e più export, quindi più posti di lavoro.

 

Naturalmente l’Italia non è solo un paese manifatturiero, come ogni economia avanzata ha anche un settore dei servizi molto sviluppato. E il Ceta prevede anche un’ampia liberalizzazione dei servizi finanziari e postali, dei servizi marittimi, delle telecomunicazioni e dell’e-commerce, oltre al reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali e all’apertura nel campo degli appalti pubblici. Per dare un’ordine di grandezza anche in questo campo: l’Italia esporta verso il Canada 1,4 miliardi di euro di servizi: assicurazioni e pensioni, telecomunicazioni, ingegneria.

 

L’Italia, come detto, ha un notevole surplus commerciale con il Canada e l’abbattimento delle barriere, tariffarie e non, può solo avvantaggiare le piccole e medie imprese italiane che cercano nuovi sbocchi internazionali. I vantaggi non riguardano solo le esportazioni ma anche le importazioni: con l’eliminazione dei dazi le imprese italiane potranno importare a costi più bassi ed essere più competitive nella trasformazione, anche perché dal Canada importiamo cose che non sono il fiore all’occhiello del made in Italy: pasta di legno, carta, soia, metalli, combustibili, prodotti dell’estrazione da cave e miniere, alluminio, antracite, gas. C’è una forte importazione di grano, che poi è ciò che disturba alcuni produttori e il motivo per cui la Coldiretti vorrebbe far saltare l’accordo. Ma l’Italia ha uno storico deficit del saldo commerciale: la produzione nazionale è insufficiente a coprire il fabbisogno, che include sia i consumi domestici che l’export nel resto del mondo della pasta. A meno di non voler impegnare il paese in uno sforzo autarchico con una nuova “battaglia del grano”, l’unico modo per produrre il pane e la pasta che servono al mercato interno ed estero è importare il grano che manca, e quello canadese è ottimo.

 

Il punto al centro delle contestazioni, come abbiamo visto, è quindi il settore agroalimentare. Ma anche in questo caso con obiezioni che sono surreali quando non sono completamente false. Perché il Ceta apre grandissime opportunità, prima precluse, non alle materie prime agricole (che non dovrebbero essere, per le nostre peculiarità geografiche, il nostro terreno di competizione) ma ai prodotti di qualità e alle cosiddette eccellenze del made in Italy. Un dato su tutti: vengono abbattuti i dazi (fino a 7 centesimi al litro) sul vino, che da solo vale 300 milioni di euro, la principale voce dell’export agroalimentare. Ma novità importanti arrivano anche dal fronte non-tariffario, ovvero dall’omologazione delle regole, soprattutto per quanto riguarda la tutela delle indicazioni geografiche. I detrattori del Ceta sostengono che non vengono tutelati i prodotti tipici, ma la verità è l’esatto contrario. L’assenza di ogni tutela è la situazione attuale, il Ceta invece riconosce 143 certificazioni tipiche europee, di cui 41 italiane. Certo, non sono tutte e quelle che sono rimaste fuori potrebbero essere teoricamente imitate in Canada. Ma per capire di cosa si parla bisogna considerare che per l’Italia l’80 per cento della produzione e oltre il 90 per cento dell’export agroalimentare Dop/Igp sono composti da 10 prodotti, tutti tutelati dal Ceta. Anzi, il Ceta ne riconosce un’altra trentina, inclusi il cappero di Pantelleria, il kiwi di Latina e la lenticchia di Castelluccio, prodotti che comunque difficilmente verrebbero imitati tra Vancouver e Montréal. E infatti nonostante i media continuino a ripetere che “gli agricoltori si oppongono al Ceta” – quando invece si tratta essenzialmente della Coldiretti – gran parte del settore agroalimentare è favorevole all’accordo con il Canada: da Confagricoltura fino a tutti i principali consorzi (prosciutto di Parma, aceto di Modena, gorgonzola, Grana padano e Parmigiano reggiano).

 

I vantaggi economici di un trattato di libero scambio con il Canada (l’undicesima economia del mondo) sono indiscutibili, riguardano anche l’agroalimentare, ma soprattutto settori che hanno un impatto maggiore sul pil come l’industria e i servizi. Aumentare l’interscambio e le esportazioni vuol dire rafforzare le imprese che si internazionalizzano e creare nuovi posti di lavoro e meglio remunerati. Insieme alle liberalizzazioni e all’aumento della produttività del mercato domestico, è l’unica strada per la crescita economica in un mondo globalizzato. L’alternativa proposta dal fronte sovranista e no global è fatta di reddito di cittadinanza, uscita dall’euro e autarchia: la via della decrescita infelice. La contrapposizione sul Ceta tra i due schieramenti è qualcosa di più dello scontro sul contenuto di un accordo commerciale, ma è una battaglia culturale sull’idea di sviluppo del paese.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali