L'Europa non è matrigna

Carlo Cottarelli

Perché il peggiore nemico dell’Italia è l’Italia non Bruxelles

Dove va l’Europa? Il libro bianco pubblicato dalla Commissione europea all’inizio di questo mese ha prospettato cinque diversi sentieri per il futuro dell’Europa. La mossa della Commissione – presentare opzioni più che raccomandazioni – è stata intelligente perché ha posto i paesi membri di fronte alle loro responsabilità. Una prima risposta è venuta dalla dichiarazione di Roma del 25 marzo, per il sessantesimo anniversario dei trattati europei, che contiene alcuni importanti principi generali (per esempio, il riconoscimento della possibilità di un’Europa a più velocità), ma si tratta pur sempre principi generali. Il futuro dell’Europa resta quindi incerto.  

 

Che l’Europa debba cambiare, lo dicono tutti. Nel nord Europa si continua a non avere una piena fiducia nelle istituzioni europee e nei paesi del sud. Sintomatica è l’insistenza della Germania nel voler coinvolgere il Fondo monetario internazionale nel programma con la Grecia, principalmente perché le autorità tedesche non si fidano del monitoraggio della Commissione. Sintomatici sono anche i toni talvolta arroganti di politici del nord Europa (è incredibile che Jeroen Dijsselbloem, dopo aver detto quello che ha detto, non si sia neppure scusato; Trump docet). Tutto questo non aiuta. Nel sud Europa anche la maggior parte degli europeisti ritiene che le regole europee siano di ostacolo a una maggiore crescita. Insomma, sì all’Europa ma no a questa Europa. E’ un vizio anche italiano ed è su questo che vorrei concentrarmi nel resto di questo articolo. Se vogliamo che l’Europa cambi, e se vogliamo dialogare col nord da una posizione di forza, dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi e smettere di incolpare l’Europa dei nostri problemi economici. 

 

Non è vero che l’Europa sia solo regole e intransigenza. La flessibilità esiste e ci è stata data. L’aggiustamento dei conti pubblici è stato significativamente rallentato rispetto agli impegni originali. Il Documento di Economia e Finanza (Def) dell’aprile 2014 prevedeva per il 2017 un surplus primario del 4,6 percento del pil. Dovremmo invece essere all’1,5 per cento. Il deficit complessivo doveva essere dello 0,9 percento del pil; dovremmo invece essere un po’ sopra al 2 per cento, nonostante le significative entrate una tantum previste per quest’anno e la spesa per interessi molto più bassa grazie all’azione della banca centrale europea. Il rapporto tra debito pubblico e pil avrebbe dovuto scendere di sei punti e mezzo percentuali: è aumentato di 3 punti. Ci hanno messo in procedura di deficit eccessivo? No, perché è stato riconosciuto che la congiuntura restava più debole del previsto e che stavamo facendo un po’ di riforme strutturali. Quindi la flessibilità ci è stata data e non poca. L’eccessivo debito pubblico, torno a dirlo, è quello che ci impedisce di avere politiche di bilancio più espansive, non le regole europee.

 

A partire dalla metà del 2012, la Banca centrale europea ha sostenuto l’economia con tassi di interesse bassissimi, garantendo comunque una bassa inflazione, grazie alla propria credibilità. Certo, si poteva intervenire prima per stabilizzare i mercati, ma ormai sono quasi cinque anni che beneficiamo di politiche monetarie estremamente espansive. Sempre nel campo finanziario, le regole europee sul bail-in sono probabilmente un po’ troppo rigide, ma non ci hanno comunque impedito di intervenire a sostegno di alcune banche, di evitare perdite per la stragrande maggioranza dei risparmiatori, e di scongiurare il rischio di contagio sistemico. Quanto alle riforme strutturali, ci sono stati riconosciuti i progressi fatti e c’è stata una notevole tolleranza per i ritardi in alcune aree (per esempio, nelle politiche volte ad aumentare la concorrenza). Insomma, non mi sembra che le istituzioni europee siano state insensibili alle necessità dell’economia italiana. I problemi economici italiani (l’alto debito pubblico, la stagnazione della produttività, la perdità di competitività, l’evasione fiscale, l’eccessiva burocrazia, il calo demografico, solo per citarne alcuni) sono soprattutto nostri e sarebbe irrealistico pensare che possano e debbano essere risolti dall’Europa. Certo, la Germania e l’Olanda potrebbero avere politiche di bilancio un po’ più espansive, soprattutto visto il loro surplus con l’estero, ora ai massimi storici. Ma se il loro deficit pubblico forse, per esempio, un punto di pil più elevato non farebbe una grande differenza per il resto dell’Europa. In ogni caso, potremo essere credibili nel chiedere agli altri di fare la loro parte, solo facendo la nostra.

 

Per dirla breve, dobbiamo smettere di procrastinare. Non conosco nessun paese in cui sia considerato ormai del tutto normale approvare ogni anno un decreto “mille proroghe”. Ma ci rendiamo conto? Sono dodici anni di fila che li approviamo: abbiamo istituzionalizzato il rinvio. E, tornando alla questione dell’aggiustamento dei conti pubblici, abbiamo messo il pareggio di bilancio in costituzione: sono cinque anni che posticipiamo la data del suo raggiungimento, e continuiamo a farlo anche ora che abbiamo ricominciato a crescere.

 

Ci sono cose che dobbiamo chiedere all’Europa. Per funzionare al meglio, un’area a moneta unica deve avere un bilancio federale di dimensioni maggiori di quello europeo (che, con un livello di entrate e spese pari a circa l’uno per cento del pil, è circa un trentesimo di quello degli stati federali più decentralizzati). Lo aveva già detto nel 1977 il rapporto MacDougall, commissionato dalla Comunità Europea, che riteneva che il bilancio europeo dovesse raggiungere circa il 7-10 percento del pil. Per questo occorre accentrare politiche di tassazione e di spesa pubblica, anche per facilitare la convergenza strutturale delle economie dell’area. Ci vorrà del tempo, ma resta un progetto importante. Dobbiamo però chiedere queste cose all’Europa da una posizione di forza, da leader europei, e dopo aver fatto la nostra parte.

 

In conclusione, lavoriamo per un progetto europeo comune di lungo termine se non vogliamo diventare irrilevanti nel mondo. Quanto alle nostre difficoltà, smettiamo di incolpare l’Europa dei nostri problemi, smettiamo di pensare che questi problemi debbano essere risolti dall’Europa (anche le nostre frontiere sono prima di tutto nostre, no?) e diamoci da fare senza chiedere “aiutini”, che comunque non verranno.