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Ecco com'è fallita Virginia Raggi. Tutta la storia

Salvatore Merlo

Metodo cinque stelle: delazioni, ottusità, espulsioni, e clima di terrore. Come e perché il Campidoglio è diventato lo specchio dell’autoritarismo al governo del Movimento 5 Stelle

Roma. “Quando Roberta Lombardi capì che Virginia Raggi funzionava, che Gianroberto Casaleggio l’aveva individuata come la candidata perfetta a sindaco di Roma, tentò di screditarla in ogni modo. E si scatenò così una faida bestiale. Fatta di calunnie, maldicenze, dossier. E da ambo le parti. Non era la prima volta dentro il Movimento. Ma più il cocomero da spartirsi si faceva grosso e succoso, più il metodo della delazione maldicente si faceva violento. Il sistema è sempre lo stesso: si costruisce una narrazione intorno alla persona da colpire, e si aspetta che sul malcapitato si abbatta la scure dei capi, dello staff, di Grillo, del blog, il linciaggio sul web”. Ed Ernesto Tinazzi Leone, guida storica del famoso Meetup 878, quello dei Sansepolcristi del grillismo, i duri, quelli che persino Grillo definiva “i miei Talebani”, il gruppo di mischia che nel 2013 fece vincere le parlamentarie a Paola Taverna, a Federica Daga e anche ad Alessandro Di Battista, uno dei fondatori del M5s a Roma – “sono sul blog dal 2006” – mentre pronuncia queste parole ha l’accento consapevole di chi questa storia l’ha vissuta tutta, da dentro, e sin dall’inizio. Alla convention del Circo Massimo, a Roma nel 2014, Tinazzi era sul palco con Grillo, quelli del suo Meetup costituivano il servizio d’ordine intorno al grande capo, si sovrapponevano persino allo staff del blog. “A volte ho l’impressione di aver buttato dieci anni della mia vita”, dice adesso, “ho sperimentato sulla mia pelle ‘il metodo cinque stelle’”, aggiunge. Assunte delle posizioni molto critiche nei confronti dei nuovi colonnelli, e in particolare di Roberta Lombardi, un giorno Tinazzi fa una scoperta: “Una mattina mi collego al blog, inserisco la mia userId, e mi appare questa scritta: ‘Id non valido’”. Era stato cancellato. Ma mai espulso. Perché? “Nessuno me lo ha spiegato. Io e il mio Meetup fummo fatti fuori alla vigilia delle elezioni con i metodi di sempre”, gli stessi che adesso condiscono la contorta trama di maldicenze e diffamazioni sempre più illuminata dalle indagini della procura di Roma intorno al caso Marra, ma anche dalle rivelazioni di protagonisti e comprimari, come Paola Muraro (“c’è una guerra per bande”) e Paolo Berdini (“una corte dei miracoli”), della scombiccherata avventura amministrativa di Virginia Raggi in Campidoglio.

Anche il generale Giovanni De Lorenzo, quello del piano Solo, compilava dossier, ma per ricattare, per esercitare un potere reale, per scoprire segreti inconfessabili che gli consentivano di controllare parecchie persone nei gangli vitali dello stato. Ma la tecnica del dossieraggio nei cinque stelle, il sistema delle accuse segrete e del character assassination, come vedremo, è spiazzante. Del tutto nuova. Le accuse che parlamentari, consiglieri comunali, militanti storici e colonnelli di Grillo si rimpallano, a tutti i livelli, le calunnie che si scagliano addosso l’un l’altro (ma alle spalle), sono sempre tutte a livello personale e superficiale. E quello che emerge dalle chat segrete, dai racconti dei testimoni, è piuttosto uno stile di convivenza politica forse ancora tutto da studiare, al quale evidentemente non siamo abituati, e che dunque ci confonde. Ci spiazza. Sono infatti scontri che non si verificano mai su temi di interesse reale, politico o ideologico, che non si risolvono mai nella fisiologia del contrasto anche gladiatorio ma democratico tipico dei partiti, ma che si configurano piuttosto come una strana, disordinata e sgrammaticata zuffa continua, in cui la delazione è tanto sciocca quanto forsennata e indirizzata alla distruzione personale degli avversari, alla loro delegittimazione di fronte ai leader supremi, siano Grillo, Casaleggio o l’evanescente staff, che con un post su internet, una mezza frase, una disattivazione, ti cliccano via, e possono decidere la differenza che passa tra un disoccupato frustrato che abbaia sul web e un parlamentare che va in televisione e guadagna più di cinque mila euro al mese.

 

Le indagini della procura di Roma, rivelando il contenuto di alcune conversazioni via chat tra Raggi, il suo ex vice capo di gabinetto Raffaele Marra, Daniele Frongia e Salvatore Romeo, hanno permesso di scoprire che, fra dicembre del 2015 e gennaio del 2016, in seguito a una serie di insinuazioni relative alla sua moralità e alla correttezza dei suoi comportamenti istituzionali (un presunto abuso d’ufficio, anche piuttosto banale), Marcello De Vito – consigliere comunale del M5s amico di Roberta Lombardi e avversario di Frongia e Raggi – viene sottoposto a una specie di processo popolare della Cina di Mao, in più fasi, a cui partecipano anche diversi parlamentari come Alessandro Di Battista, Carla Ruocco e Paola Taverna. Si era alla vigilia delle primarie per la scelta del candidato sindaco, e De Vito si contrapponeva a Raggi. A distanza di un anno, De Vito (salvo poi smentire) confesserà al Messaggero: “Se non ci fosse stata quella carognata del finto dossier contro di me, il candidato sindaco non sarebbe stata Virginia, ma io”.

 

Questo episodio, ormai pubblico e molto noto, è solo la punta di un iceberg. Ed è infatti preceduto da un tentativo – molto meno noto – da parte del gruppo di De Vito e Lombardi, di screditare a sua volta la Raggi, come racconta Frongia – sponsor e alleato strategico della sindaca, ex vicesindaco e oggi assessore – in una chat di quell’inverno 2016, portata alla luce da Marco Zonetti, un ex militante romano definito oggi nemico pubblico numero 1 del M5s. In questa chat erano presenti tutti i consiglieri comunali e municipali dell’epoca, tranne Marcello De Vito. E Frongia, a un certo punto, rispondendo a Paolo Ferrara, oggi capogruppo in consiglio comunale, che lo invitava alla cautela, ad andarci piano, rivela che i nemici hanno diffuso “un dossier contro Virginia in Parlamento”. E insomma quello contro De Vito non era che una rappresaglia, spiega Frongia. Occhio per occhio.

 

Ma la verità di quei mesi è che, a ridosso delle elezioni comunali che il M5s avrebbe poi vinto napoleonicamente, tra i militanti, gli aspiranti eletti, gli aspiranti candidati alle primarie (anzi alle comunarie), si scatena – e a tutti i livelli, dal più alto al più infimo – una faida brutale e assurda, condita dalle peggiori calunnie, come può avvenire solo in certe sguaiatissime riunioni di condominio, un conflitto disordinato e scatenato da principi forse più etologici che politici.

 

Le espulsioni, le cancellazioni, precedute da accuse e insinuazioni pubblicate anche sui forum ufficiali e semi-ufficiali del Movimento, sono infatti decine, in quelle settimane. “Tra gennaio e febbraio del 2016, a ridosso delle amministrative, furono falcidiati tutta una serie di attivisti”, racconta Lorenzo Borré, ex militante romano iscritto al Movimento dal 2012, avvocato, e poi difensore di quattro di questi espulsi, cioè Paolo Palleschi, Roberto Motta, Antonio Caracciolo e Mario Canino. “Canino”, racconta l’avvocato Borré, “aveva partecipato persino alle primarie. Le aveva superate. Ma poi è stato depennato dalla lista elettorale all’ultimo istante. Cominciarono infatti a dire che era stato iscritto, cinque anni prima, all’Idv. Un pretesto per eliminare uno che stava sulle scatole, e che evidentemente doveva essere sbianchettato per fare posto a qualcun altro. Perché nel frattempo si candidava, e senza che nessuno avesse qualcosa da obiettare, un tizio che si era persino presentato alle elezioni con l’Idv, e più volte, l’ultima nel 2014, Mario Torelli”, oggi addirittura presidente del XI Municipio per l’M5s. Ma succedeva anche di peggio, “perché quando non hanno argomenti o pretesti pseudo regolamentari, l’attacco diventa diffamatorio”, racconta Antonio Caracciolo, professore emerito di Filosofia del diritto alla Sapienza, candidato alle primarie e immediatamente cancellato. “Mi hanno accusato di negazionismo! Ma si rende conto? Di aver negato l’Olocausto! E mi hanno buttato fuori dalle primarie, al culmine di una campagna di calunnie nella quale sono caduti anche i giornali e che il tribunale di Roma ha riconosciuto come diffamatoria. Io mi sono fatto reintegrare nel Movimento con una sentenza, e adesso voglio fare una battaglia da dentro. Sono ostinato. Io ci voglio stare nel Movimento. Ci vuole un regime di garanzie per gli iscritti, altrimenti non c’è democrazia. Qui ho visto succedere cose inaccettabili, e ho potuto constatare una viltà di fondo anche tra molti militanti. E sapete perché? Perché poi, sotto sotto, tutti si aspettano una candidatura. E quindi nessuno protesta per le cose incredibili, staliniste – e dire staliniste è quasi un complimento – che succedono”.

 

E succedono continuamente, a ogni appuntamento elettorale, praticamente dalla fondazione del Movimento, come racconta Serenetta Monti, che è stata la prima candidata sindaco di Beppe Grillo a Roma. Nel 2008 la signora Monti sconfisse alle primarie Roberta Lombardi, per un solo voto. “Eravamo poco più di un centinaio di persone in una specie di internet point a San Paolo, il Linux club”, ricorda lei, “e io vinsi un testa a testa con la Lombardi che avevo già battuto nell’elezione dell’organizer del Meetup”, che è una specie di segretario cittadino del Movimento. “E da lì”, dice in un soffio la signora, “è cominciato un casino”. Serenetta Monti è la prima vittima nota a Roma del sistema 5 stelle: calunnie, delazioni, esposizioni alla gogna del web e chiacchiere velenose soffiate nelle orecchie dei leader nazionali, i padroni Grillo&Casaleggio. Per farla breve, a un certo punto Serenetta Monti, che è sempre stata di sinistra, ed è una sindacalista del pubblico impiego nota in città, fu indicata nei forum, e con una attività implacabile, come simpatizzante di Forza Nuova. “Mi davano della fascista. A me! Era ridicolo. Ma la cosa non finiva mai, tutto s’ingigantiva, arrivavano altri sospetti, chiacchiere, persino l’accusa stupida e infamante di essermi appropriata di 182 euro – 182 euro! – che avevamo raccolto per solidarietà ai sopravvissuti del rogo ThyssenKrupp. A un certo punto fui persino sottoposta a una specie di processo pubblico, una roba alla Perry Mason, dal quale uscii assolta. Ma non bastava. Mi dimisi e me ne andai. Mi avevano rotto le scatole. Questi perdono tempo, ancora adesso, in conflitti da liceali in gita. E’ una cosa a metà tra il manicomio, la caserma, l’oratorio e l’asilo infantile. Ci credo che Raggi non ha combinato nulla in Campidoglio. E come poteva, se passano la metà del tempo a escogitare il modo di farsi fuori l’un l’altro?”.

 

E allora forse è necessario tornare alla cronaca degli ultimi fatti, e illuminarla meglio, e a ritroso. Nel 2013, subito dopo il trionfo delle elezioni politiche di febbraio, Roberta Lombardi – che intanto è riuscita a eliminare tutti i suoi avversari e ha costruito un rapporto personale con Casaleggio e Grillo – è stata eletta in Parlamento. E’ la prima capogruppo della Camera dei deputati, ed è la persona più importante del Movimento cinque stelle a Roma, probabilmente la terza persona più influente dentro il Movimento a livello nazionale: a Milano c’è Gianroberto Casaleggio, a Genova c’è Grillo, a Roma c’è lei. A maggio, due mesi dopo le politiche, si votano le comunali a Roma. Ed è qui che deflagra la rissa di strada che si è trascinata fino ad oggi, e che è anche, parzialmente, la causa dell’inerzia e della palude nella quale Virginia Raggi è sprofondata. In quei mesi infatti Lombardi avverte la possibilità di essere messa in ombra da uno scaltro militante dell’VIII municipio (l’ex XI), Daniele Frongia, che si vuole candidare alle primarie per sindaco, uno che raccoglie parecchi consensi, e che anzi è il favorito. Così Lombardi, che non può più candidarsi perché è in Parlamento, inventa un suo uomo di paglia, uno sul quale riversare il suo ampio consenso tra i militanti: Marcello De Vito, un giovane avvocato iscritto al M5s da meno di un anno. Alla fine vince De Vito, con l’appoggio di Lombardi e anche del poderoso Meetup 878 (poi epurato insieme ai suoi iscritti, a esclusione di Taverna, Ruocco e Di Battista, che annusata l’aria si erano allontanati per tempo). Dunque Frongia è sconfitto.

 

Ma questo conflitto, finora piuttosto naturale, per così dire “politico”, tracima, s’intreccia di antipatie personali, s’inquina di non detti, incomprensioni, dispetti, così che tre anni dopo, nel 2016, alle successive primarie per il sindaco, come oggi rivelano le chat e le testimonianze di chi c’era, i due gruppi contrapposti e ormai consolidati sono disposti a tutto per distruggersi a vicenda, per sputtanarsi con tutta l’ottusa violenza possibile. E in particolare quando Casaleggio padre scopre Virginia Raggi, la candidata sindaco proposta da Frongia, e quando dopo averle fatto dei colloqui, il Guru sentenzia che “questa ragazza buca il video”.

 

L’appoggio di Casaleggio fa tremare Roberta Lombardi. E a quel punto “si innescarono meccanismi che nemmeno nei romanzi di Orwell o nel ‘Buio a mezzogiorno’. Quando Lombardi capì che Raggi funzionava e piaceva a Casaleggio, tentò di screditarla. E contemporaneamente anche il gruppo di Frongia e Raggi preparava dossier contro De Vito e dunque contro Lombardi. Sperando tutti nella mannaia dall’alto, il colpo di grazia di Grillo’”, racconta Marco Zonetti, che iscritto a febbraio del 2013, dopo il boom delle politiche, sarebbe entrato in contatto e in rapporti diretti con tutti i protagonisti della nostra storia: lui che oggi, fuoriuscito dal Movimento, è uno dei più efficaci disvelatori delle meccaniche grilline, fatto oggetto persino di minacce, tanto da essere finito, insieme ad altri, in una serie di liste di proscrizione del M5s su internet, in uno di quei non luoghi virtuali in cui si pratica la libera diffamazione, una specie di latrina pubblica dove chi passa può aggiungere un insulto ad libitum. “E’ il meccanismo turpe della gogna in rete, che ovviamente ha un che di geniale e crudele, una sua indecente efficacia. Perché la gogna è la minaccia definitiva con la quale nel Movimento ti tengono sotto scopa. E’ il colpo alla nuca. Nel momento in cui alzi la mano e dici: ‘Forse stiamo sbagliando’, loro prima ti aggrediscono, poi ti cacciano e infine ti espongono al pubblico ludibrio”.

 

E così, mentre si aprivano le comunarie del 2013, succedevano le cose più incredibili e stupide sul Forum5stelle.org, oggi chiuso – seimila iscritti e un patrimonio di voti. Roba da far scappare o divertire una persona normale. Ma nel piccolo mondo chiuso ed endogamico della militanza grillina le accuse più sciocche diventavano materiale serissimo e incandescente, come racconta Paola Rosati, iscritta al Movimento dal 2011, personaggio di spicco del XI municipio, lì dove c’erano anche Frongia e Romeo, lei che fu tra gli organizzatori dello Tsunami tour e fu una delle responsabili della raccolta fondi per il Movimento: “Venivano istituiti processi sommari e gognette, si cercava di dimostrare che Tizio o Caio erano in realtà degli infiltrati del Pd o di altre forze politiche, si estrapolavano mezze frasi da conversazioni private. Le parole venivano rielaborate, e ricostruite in un significato completamente diverso da quello originario. Bastava una parola sbagliata per finire male, in un gioco al massacro che si scatenava anche per semplice antipatia personale. Roba da psicotici, me ne rendo conto. Ma tutte cose che avevano in realtà una grande importanza. Alla fine determinavano equilibri interni. Il Forum significava avere popolarità, avere la benevolenza di quello che era considerato il vertice del M5s”.

 

E allora si capisce molto bene quello che ci vuole dire un amico di vecchia data di Virginia Raggi, uno che – estraneo alla politica e al M5s – ha provato ad aiutarla, quando, seduto sul divano del salotto di una bella casa alle spalle di piazza Navona spiega che: “La sua finora sfortunata esperienza in Campidoglio sta forse danneggiando le ambizioni elettorali nazionali del Movimento cinque stelle. Forse. Ma vi assicuro che l’insipienza, l’illogicità, e l’autoritarismo del Movimento cinque stelle hanno sicuramente compromesso questa sindacatura”. Così vengono spiegate un po’ di cose accadute in questi ultimi mesi, a cominciare dal contratto che la sindaca ha firmato, il famoso accordo di dubbia legalità che la obbliga al vincolo di mandato, a rispettare cioè quello che le viene detto dallo staff e da Grillo, pena la multa da centocinquantamila euro e ovviamente l’espulsione. “Ma vi siete mai chiesti perché Chiara Appendino non l’ha firmato quel contratto, e Raggi sì? Raggi non lo voleva firmare. Ma è circondata da questa nuvola di sospetti e sussurri, e malizie e odio, sin dall’inizio. Ci nuota dentro e ci affoga”.

 

E viene srotolandosi così, e piuttosto facilmente, l’elenco delle “mediazioni sciocche”, “dei caveat”, dei dinieghi e delle imposizioni dall’alto che sono precipitate sulla sindaca per effetto del clima psicotico in cui sta immerso il Movimento. Lei che intanto stringeva sempre di più rapporti di fiducia con Raffaele Marra, l’unico intorno, insieme a Salvatore Romeo, che conosceva i meccanismi amministrativi del comune, e di cui si fidava. Non è difficile capire, in questo contesto, perché la squadra di governo fu composta in grande ritardo, tra mille pasticci, e ancora prima della raffica di dimissioni. “Noi proponevamo un nome e veniva bocciato. Chiedevamo: perché? Risposta: ‘Perché la persona che proponete ha esperienze amministrative con altre giunte’. E insomma tutte le persone competenti che avevamo selezionato venivano cassate. Dicevano di ‘no’ a quelli che proponevamo noi, e intanto però imponevano gente loro”. Alla fine la squadra si compose in maniera bislacca, senza una valida logica di équipe, e conteneva già tutti i miasmi e gli spasmi venefici che l’avrebbero distrutta velocemente: dunque Marcello Minenna e Carla Raineri (suggeriti da Carla Ruocco, e approvati dallo staff, ma sgraditi al sindaco), Paola Muraro (suggerita da Stefano Vignaroli, e approvata dallo staff, ma all’inizio sgradita al sindaco), persino Paolo Berdini (imposto, e sgradito), e infine il direttorio, “che era la manifestazione delle frustrazioni personali di Roberta Lombardi”. Un marasma, una follia, con la sindaca che non si fidava nemmeno del suo capo di gabinetto, e che anzi, pare, si doveva continuamente guardare le spalle in un chiacchiericcio asfissiante e malevolo. “E come poteva funzionare una cosa del genere?”. Non poteva. Anche perché i dossieraggi, le invidie, le ottusità erano ancora all’ordine del giorno, anche una volta entrati in Campidoglio. Ripicche continue. Da liceali. A meno di un mese dall’elezione, “qualcuno” comincia infatti a raccontare ai giornalisti del praticantato della Raggi nello studio Previti. E su questa base viene costruito un romanzetto sulle infiltrazioni della destra romana, dove l’unica cosa infamante è la parola “infiltrazioni”. Poi, quasi come risposta, poco dopo, dalle parti della Raggi viene diffusa una voce velenosa e falsa: la moglie di Marcello De Vito è stata nominata assessore del II Municipio. “Vergogna”. Infine – ed è un ping pong demenziale – ritorna in voga la vecchia storia della baby sitter di Roberta Lombardi, assunta come assistente in Parlamento. “Vergogna”. Finché in questo scambio abbastanza stupido di accuse personali e superficiali non avviene un salto di qualità notevole. Dalle parti della Lombardi cominciano a segnalare l’esistenza di Raffaele Marra, oggi in carcere per corruzione, ma per fatti avvenuti prima della sua nomina a vice capo di gabinetto del sindaco. Il 22 novembre 2016 Roberta Lombardi in persona si presenta in procura e deposita una denuncia, un fascicoletto di dieci pagine in cui chiede ai magistrati di indagare sulla famosa casa acquistata dalla moglie di Marra, quella che porterà all’arresto qualche mese dopo di Raffaele Marra, l’uomo che – dicono – aveva compilato insieme a Frongia il dossier primigenio di questa brutta storia, quelle accuse contro De Vito che “se non ci fossero state oggi io sarei il sindaco”. E’ il metodo 5 stelle. E la vera storia della giunta Raggi ci aiuta a capire qualcosa di più su cosa significa avere il grillismo proiettato al governo.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.