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DI COSA PARLARE STASERA A CENA

Perché Enrico Letta ha sbagliato la sua campagna elettorale

Giuseppe De Filippi

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Maramaldi a chiacchierare a cena potremmo prendere come bersaglio Enrico Letta e il Pd. Saremmo anche felici di fare una figuraccia e trovarci smentiti dai risultati. Smentita questa noterella, i sondaggi, la sensazione generale e diffusa di dove vadano le cose. Ma, per ora, anche scaramanticamente, diamo ascolto a ciò che si sente nell'aria e tentiamone, da maramaldi, un'analisi. Per cominciare vediamo le mancate alleanze elettorali. Erano necessarie, vitali. Ci si doveva arrivare in altri modi. Preparando tutto prima. Dialogando, mantenendo una posizione di forza e, soprattutto, tenendo ben conto di come e perché si era arrivati alla situazione politica di quest'estate, andando indietro, almeno fino al 2013, perché le vicende di Pd, 5 stelle, renziani, calendiani sono tutte note e leggibili e non si può impostare una strategia elettorale senza considerarle.

 

Il nodo psicologico e politico di Matteo Renzi e di cosa ha rappresentato nella storia del Pd non si poteva lasciare insoluto. È un peccato che Letta, simbolicamente il più esposto di tutti alla tentazione della sterile vendetta, non abbia usato la propria condizione per dare una lezione di politica, come avrebbe fatto se avesse tentato di recuperare il contatto con Renzi, di ri-elaborare insieme la storia fatta della conquista della segreteria, di un governo, di una sconfitta e di una scissione. Lasciata lì senza memoria e senza elaborazione la scissione è stata gestita malissimo dal Pd. In passato un grande partito della sinistra non avrebbe mai accettato che l'esito di una scissione fosse l'accettazione dell'alterità di chi se ne va.

 

Semmai si sarebbe detto che chi si separava era solo la brutta copia dell'originale. A Renzi, invece, è stata lasciata la bandiera del tentativo di rinnovamento della sinistra in direzione liberale. E c'è poco da fare ironia sui numeri esigui. Perché a contare era lo spazio politico. Ironicamente lo stesso in cui aveva militato Letta per tutta la vita. Regola generale è che se subisci una scissione non devi dire che chi va via aveva le sue ragioni e che ora è tutto più chiaro, non puoi dirlo se lo scissionista poco prima era il tuo segretario. E vale anche per l'uscita di Pierluigi Bersani. Il partito deve restare il depositario delle tradizioni politiche che lo hanno animato, non può seguire mode o umori, deve saper restare plurale, anche nelle difficoltà. Letta doveva costringere tutti a ragionare seriamente sulle scissioni, non facendolo si è trovato a trattare alleanze senza solidità e senza serietà.

 

E invece, quando si fanno le liste, doveva far pesare il suo ruolo, imporsi, fare anche prepotenze, lasciare un segno, qualcosa che faccia capire cosa vuol dire essere lettiani. Il "noi" è un bel sogno, ma conta l'io del leader. Trattate con i 5 stelle, malgrado il Conte 2, era più difficile. Perché restano un non-partito, sfuggono alla logica politica, sentono le elezioni come risveglio del loro populismo. E arrivano da un successo storico. Trattarli come i perdenti da salvare suonava un po' ridicolo, malgrado rovesci amministrativi e sondaggi vari. Il loro programma non stava in piedi, come è palese in questi giorni. Allora gli vai contro e basta. Ma, specialmente a livello locale, questo non sta succedendo.

 

Le tre "cose" principali 

Fatto #1

Crisi (di squadra) di governo

Fatto #2

Come si cincischia in Ue e specialmente in Germania sulla guerra. Vladimir Putin richiama i riservisti, alcuni leader locali li bloccano

Fatto #3

Quanti siamo (pochi)

 

Oggi in pillole 

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