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Nessun catastrofismo sull'intelligenza artificiale

Costantino della Gherardesca

La sua introduzione nelle nostre vite sarà rivoluzionaria. Ma per ora possiamo stare tranquilli (forse)

“L’intelligenza artificiale non può essere creativa né provare empatia”. Si tratta di un concetto che – interpretato in chiave catastrofista – potrebbe uscire dalla bocca di un passatista qualsiasi, un assessore regionale alle Politiche familiari o un sacrestano di provincia. A pronunciarle, invece, è stato Kai-Fu Lee, venture capitalist da sempre ai vertici delle maggiori aziende della tecnologia internazionali (Apple, Microsoft e Google, giusto per citare le più famose). Nato a Taiwan e formatosi negli Stati Uniti, Lee è da anni impegnato nel campo dell’intelligenza artificiale, tema al centro del suo ultimo libro: AI Superpowers. China, Silicon Valley and the New World Order.

 

Al centro di quest’opera c’è un concetto chiave che ha fatto drizzare le orecchie agli osservatori più attenti: i leader mondiali hanno a più riprese ribadito che chi controllerà l’intelligenza artificiale controllerà il pianeta e, stando a quello che sostiene Lee, la Cina (paese in cui lo stesso Lee ha scelto di operare) ha tutte le carte in regola per diventare capofila di questo campo della ricerca.

 

Perché proprio la Cina? Le ragioni principali sono due. La prima è legata alla natura stessa dell’intelligenza artificiale, la seconda si fonda invece sulle specificità legislative di questa enorme nazione.

 

Il primo punto su cui insiste Lee demistifica molti preconcetti sull’AI perché, tornando alla citazione riportata in apertura, sottolinea un dato che noi apocalittici occidentali, presi come siamo dai nostri deliri distopici, non abbiamo ancora afferrato: l’intelligenza artificiale non punta alla creazioni di macchine pensanti slegate dalla volontà umana, ma all’esatto contrario. L’AI non è in grado di prendere decisioni al nostro posto, ma può velocizzare e ottimizzare molti processi incrociando i dati presenti in uno sconfinato database continuamente alimentato da esseri umani. E proprio perché queste macchine hanno un disperato bisogno di dati, un paese che conta quasi un miliardo e quattrocento milioni di abitanti rappresenta un bacino da cui pescare a piene mani.

 

Il secondo punto è direttamente collegato al primo. La Cina, infatti, oltre a poter contare su una vastissima popolazione, non ha leggi troppo restrittive sulla privacy, cosa che facilita sensibilmente il reperimento di questi dati. Dati che, se per la scienza sono preziosissimi, per noi singoli cittadini sono piuttosto irrilevanti, nonostante tutte le nostre infondate paranoie occidentali. Viviamo nella costante preoccupazione di essere monitorati e perseguitati, come se agli Illuminati interessassero i nostri vocali su WhatsApp, dimenticandoci che le nostre vite private sono quasi sempre di una piattezza raggelante. Per chi si occupa di AI, è molto più interessante sapere che faccia avete (la facial recognition è uno dei temi centrali della ricerca in questo settore) e che tipo di sushi ordinate su Glovo. Le vostre dickpic, state tranquilli, sono del tutto irrilevanti.

 

Per Kai-Fu Lee la Cina è la realtà ideale per lo sviluppo di questa tecnologia, non solo perché soddisfa questi due punti, ma anche perché si tratta di un paese che beneficerebbe enormemente di questa innovazione, soprattutto nel settore dell’educazione. Lee sa bene che la Cina a oggi non è ancora capace di formare talenti (quasi tutti i ragazzi cinesi che lavorano ai suoi progetti hanno studiato all’estero), ma l’AI potrebbe arginare questo problema: le istituzioni universitarie diventerebbero assai più accessibili se la parte nozionistica dell’insegnamento (che nelle scienze esatte rappresenta un buon 75 per cento) fosse riservata alle macchine. Ai docenti spetterebbe il compito di indirizzare gli studenti nei propri percorsi di ricerca, così da garantire un approccio ritagliato sulle esigenze e le potenzialità del singolo allievo (cosa che già avviene nelle scuole più prestigiose, dove però un docente ha un numero molto limitato di studenti).

 

Se è vero che con l’arrivo dell’AI molti lavori (dai trasporti alla ristorazione) sarebbero completamente automatizzati, è altrettanto vero che certe competenze umane non saranno mai obsolete. E qui si torna alla citazione iniziale: “L’intelligenza artificiale non può essere creativa né provare empatia”. Se è vero che una macchina può effettuare in pochi minuti una diagnosi medica a prova di errore, è altrettanto vero che il paziente dovrà esporre a un dottore i propri sintomi (che effettuerà una scrematura di questi input) prima che l’AI dia il suo verdetto. E sarà sempre lo stesso dottore a dirvi – con la delicatezza che una macchina non avrà mai – quanto vi resta da vivere.

 

Intendiamoci, anche al netto di queste rassicurazioni, il cambiamento resta epocale. L’introduzione dell’AI nelle nostre vite, ha dichiarato Lee a 60 minutes, sarà più rivoluzionaria dell’elettricità. Ma fino a quando le redini del progresso scientifico saranno in mano a persone come lui, consapevoli della portata dei cambiamenti che stanno favorendo, possiamo stare tranquilli: il nostro futuro non dipende dalla follia di un supervillain à la James Bond, anche perché i sogni di dominazione e sterminio mondiale non sono particolarmente profittevoli nel medio e lungo periodo.

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