Lo spoglio delle schede delle elezioni regionali in un seggio di Milano (foto LaPresse)

Deluxe Mea Lux

Bastava guardare i vestiti degli elettori per prevedere il disastro elettorale

Costantino della Gherardesca

E' tutto talmente brutto che non potrà che ispirare il bello

Il disastro non arriva mai di sorpresa. C’è sempre una lunga serie di segnali, di crescente intensità, che dovrebbero metterci in guardia. Così è stato anche il 4 marzo, giorno delle elezioni: le ventiquattro ore che hanno confermato una volta per tutte il legame indissolubile tra le manie di persecuzione del ceto medio italiano e il suo orientamento politico.

 

La giornata non prometteva niente di buono. Il cielo su Milano era grigio, appesantito da un’umidità che speravo spingesse le vecchie fasciste afflitte dall’osteoporosi a rintanarsi in salotto, ipnotizzate da qualche replica di Uomini e donne. E, invece, queste autoproclamatesi paladine delle radici giudaico-cristiane dell’Europa si erano messe in marcia, attirate dall’umidità come lumache, accompagnate dai corpi cavi dei loro mariti.

 

Le aspettative con cui sono uscito di casa non erano certo le migliori: anche se mi dipingo come uno snob scollegato dal Paese reale, in realtà sono – ahimè! – ben consapevole di vivere in una società orgogliosamente votata alla miseria. Ciononostante, la parte più irresponsabile e ottimista di me (quella che si illude di non assimilare i carboidrati e si ostina a comprare i pantaloni di uno stilista spietato come Christophe Lemaire) non voleva saperne di tacere.

 

Preso da un afflato di egalitarismo democratico, ho quindi deciso di incamminarmi al seggio vestito malissimo. Mentre avanzavo nell’aria umida, avvolto in tessuti informi e neri come la vedova di un minatore, ho provato a raccontarmela: nutrivo ancora qualche vana speranza che l’Italia, almeno per una volta, non si rivelasse il solito circolo di paranoici convinti di vivere di stenti sotto il costante assedio di orde islamiche.

 

Ma, arrivato al seggio, l’angoscia e il realismo hanno preso il sopravvento: tutta la gente in fila per votare era vestita anche peggio di me. Sulle prime ho pensato a una coincidenza, poi, nel giro di un secondo, mi sono ricordato che se la gente che vive in centro a Milano decide di non tirar fuori il vestito buono, vuol dire che c’è una piaga biblica all’orizzonte: una pioggia di rane o una tempesta di fiori di Bach. Mi è bastato quel minuto in coda al seggio per fare il mio (attendibilissimo) exit poll: “Qui butta male”.

 

Tornato a casa, sono caduto in un sereno stato di depressione, seguito da momenti di accettazione e sprazzi di gastrite. Vi risparmio la noia mortale delle proiezioni, dei risultati dei primi scrutini, della lettura dei primi dati percentuali, la ripetitività delle maratone elettorali e la nausea provocata dalla conta dei parlamentari. Ho chiuso gli occhi mentre la spossante gara televisiva a chi faceva la previsione più agghiacciante era ancora aperta.

 

Al risveglio, mi sono sentito pervaso da un entusiasmo inspiegabile. Sentivo l’aria stranamente pervasa di possibilità. Il fatto che Grasso e CasaPound non avessero preso neanche il voto dei loro parenti non c’entrava nulla. A rendermi così eccitato era un pensiero che si stava formando nella mia mente. Un pensiero che, stando a quello che sentivo alla tv e leggevo sui giornali, non aveva sfiorato nessun altro oltre me. Tra tutte le analisi all’indomani del voto, infatti, non ce n’era una che mettesse in evidenza l’unico vero punto di interesse di questo nuovo scenario politico e sociale: una tale quantità di orrore non potrà che ispirare del bello.

 

Sì, siamo nella merda fino al collo, ma questo non deve per forza essere un male: vuol dire che nei prossimi mesi, a furia di guardarci e studiarci con compassione, qualche stilista di fama internazionale ci dedicherà intere collezioni, proprio come hanno fatto Demna Gvasalia e Lotta Volkova, rispettivamente direttore creativo e stylist di Balenciaga e Vetements, diventati famosi per aver pescato a piene mani nei look dei disagiati dell’era post-sovietica: tute stazzonate, giacconi bombati, scarpe da ginnastica orrende… tocchi di orrore che – sapientemente mescolati – trovano un equilibrio che definisce una nuova estetica.

 

Con qualche piccolo adattamento alle peculiarità stilistiche nazionali, questo approccio potrebbe dar vita a una collezione che rappresenti in pieno l’elettorato italiano e le sue pulsioni pauperiste: ai panneggi delicati e ai tagli morbidi cui ci ha abituato l’alta moda, si sostituiranno forme rigonfie, linee volutamente sgraziate e colori da pettorina da ausiliario del traffico.

 

Immagino una sfilata tricolore di Vetements nel corso della quale gli emarginati dell’Europa dell’Est cedono il posto ai grillini di Pomigliano e ai salviniani di Varese. Un florilegio di pantaloni a cinque tasche, scarpe da trekking, co-branding Decathlon, piumini bucati dai quali spuntano vezzosi ciuffi di piume d’oca, maglioni di lana di pecora della Val di Susa…

 

E, naturalmente, io non potrò restare indifferente davanti a un simile schiaffo all’eleganza tradizionale. Dovrò andare al contrattacco sfoggiando dei fascinosissimi look d’opposizione. Mi toccherà buttare tutti i miei abiti sartoriali e le mie cravatte di Marinella per far spazio a dei maglioni a collo alto da indossare sotto lunghi trench di pelle marrone, in pieno stile Baader-Meinhof.

 

Ma la vera domanda che dovrebbe assillare gli analisti politici, ancora assorbiti da sterili esercizi di matematica parlamentare, è quella che si ponevano nel 1967 i Velvet Underground e Nico: “And what costume shall the poor girl wear / to all tomorrow’s parties?” (E che cosa indosserà quella povera ragazza / a tutte le feste che verranno?). Già… Che cosa indosseranno i grillini ora che i palazzi del potere stanno spalancando loro le porte?

Di più su questi argomenti: