"Guàrdete com'eri, guàrdete come sei... Me pari D'Alema!"

Cosa resta dei "compagni di scuola" cresciuti all'ombra di Berlinguer e del loro film generazionale durato un quarto di secolo? Resta Roberto Speranza, in arte Fabris.

Guido Vitiello

Non posso farci niente: ogni volta che in televisione c'è Roberto Speranza, io rivedo lui, Fabris. Il mio déjà-vu ha un colpevole con nome e cognome, Andrea Romano, che pensò bene di dare al suo libro sulla generazione politica post-comunista lo stesso titolo di un film di Carlo Verdone: Compagni di scuola. Da allora non riesco a guardare il film senza pensare al libro, e viceversa. E quando si presenta in scena l'amico gracile e timido, dai lineamenti indecisi e dalla barba rada, che pare precocemente invecchiato ("Guàrdete com'eri, guàrdete come sei: me pari tu' zio!"), c'è poco da fare, io penso a lui. 

 

"Siamo un gruppo, un gruppo di amici: io, Massimo, Walter e Fabio", disse Piero Fassino in un'intervista del 1998, dopo che D'Alema era approdato a Palazzo Chigi. Amici cresciuti insieme nella nursery berlingueriana, arrivati alla guida del partito dopo l'interregno di un compagno più anziano, Achille Occhetto, e rimasti in sella fino allo scrollone di Renzi, che li ha disarcionati un po' tutti. Ma per un quarto di secolo il più grande partito della sinistra italiana era stato la loro eredità condivisa, materiale e simbolica. Nei momenti di crisi non perdevano occasione per manifestare il loro cameratismo, per raccontarsi l'epopea della loro avventura collettiva, per scambiarsi grandi pacche sulle spalle, "come membri di un patto di sindacato che rischiano di compromettere con i propri litigi la salute dell'azienda controllata in comune", notava Romano. E aggiungeva:

"Al fondo di questa ostentata familiarità, infatti, c'è come un sapore di familismo amorale, il velo di un controllo proprietario esercitato in solido su ciò che si ritiene un bene personale, sottraendolo alla pubblica contesa e dando l'impressione che le divergenze tra i componenti di un gruppo da sempre uguale a sé stesso rispondano a una logica di posizionamento rituale, piuttosto che ai meccanismi di un autentico confronto politico". 

 

Le regole dei "compagni di scuola" erano semplici: ogni linea politica è buona purché il controllo del partito resti in famiglia. Si può sostenere tutto e il contrario di tutto, dalla terza via blairiana all'anticapitalismo dei movimenti no global: "L’unico recinto che non viene messo in discussione né da Mussi né da D’Alema, né dai dalemiani né dagli antidalemiani, è quello del proprio gruppo familiare al quale si appartiene una volta per sempre".

 

Poi è arrivato l'usurpatore, e sappiamo com'è andata a finire. Alcuni sono rimasti nel partito, un po' defilati magari, o si sono messi nella posizione dei padri nobili. Altri, i più agguerriti e oltraggiati, dopo la sfiancante stagione della "minoranza di guerriglia" si sono ritrovati nel fortino di Liberi e Uguali, dove il Montecristo con i baffi escogita ingarbugliati piani di vendetta che più che a una strategia politica fanno pensare a macchinazioni da melodramma ottocentesco. 

 

E tra le truppe fresche, schierato in prima linea, c'è lui: il tenero Speranza. Che ha ereditato tutti i codici di comportamento dei ragazzi di Berlinguer, fratrìa di cui non ha potuto far parte per elementari ragioni di anagrafe. Che preserva devotamente le tradizioni familiari anche adesso che la famiglia non esiste quasi più. Che con ammirevole naturalezza può cambiare idea su qualunque cosa da un giorno all'altro, purché il riposizionamento giovi alla ditta, o a quel che ne resta. Che è giovane, sì, e ha pure la cosiddetta baby face, ma piace tanto agli esangui generali della vecchia guardia, che nella sua giovinezza non vedono una minaccia ma, al contrario, una garanzia di continuità biologico-politica. 

 

Cos'è rimasto, a conti fatti, dei "compagni di scuola" e del loro interminabile film generazionale? Fabris. È rimasto Fabris.