Anche grazie alla globalizzazione, la vita sorride un poco agli ultimi della Terra. Ma l'Onu non se n'è accorta

Roberto Volpi

Nel “World Population Prospects 2019” le Nazioni Unite si limitano a certificare, con un numero, il gap tra i vari paesi nel mondo per quanto riguarda la speranza di vita. Ma l’immagine che offrono è così parziale da risultare sbagliata e perfino falsa

In “Ten key finding”, nota riassuntiva in dieci punti delle principali tendenze della popolazione mondiale esposte e commentate nel recente “World Population Prospects 2019”, il Department of Economic and Social Affairs dell’Onu annota al sesto punto come nonostante i considerevoli progressi compiuti dalla speranza di vita o vita media alla nascita, il gap tra i differenti paesi rimane al riguardo molto ampio.

 

“Negli ultimi paesi in fatto di sviluppo economico (least developed countries) – dice il Dipartimento – si vive 7,4 anni in meno rispetto alla media globale per la persistentemente alta mortalità infantile e materna, le violenze, i conflitti e l’impatto dell’epidemia di Hiv”. Nient’altro è annotato a proposito di speranza di vita nei paesi che stanno in fondo alla graduatoria dei paesi ordinati secondo il grado di sviluppo economico, e considerati in modo distinto rispetto ai paesi meno sviluppati (less developed countries) che però non giacciono in fondo alla graduatoria e che hanno livelli di reddito pro capite significativamente più alti dei paesi in assoluto meno sviluppati del mondo (least) situati in netta maggioranza nell’Africa subsahariana e comprendenti poco più di un miliardo di persone.

 

Gli ultimi della terra, siamo dunque portati a concludere leggendo, sono sempre più ultimi. Arrancano penosamente sempre più staccati non soltanto dai fortunati paesi occidentali ma dai penultimi, da quei paesi che sono soltanto meno sviluppati, senza essere gli ultimi del mondo. Ecco, quella che riguardo agli ultimi si ricava dalla lettura del sesto punto sull’andamento della popolazione annotato dall’Onu è un’immagine così parziale da risultare sbagliata e perfino falsa, una chiave di lettura di come vanno le cose nel mondo che non ci aiuta a capire come vanno davvero le cose nel mondo. Perché è da analisi a tal punto blande e convenzionali che si ricavano due conclusioni che circolano largamente anche nelle opinioni pubbliche più avvertite: (a) che sia stata la super-popolazione, il grande balzo nel popolamento del globo degli ultimi tre quarti di secolo, e segnatamente proprio delle regioni più povere, a condannare gli ultimi della terra a un destino di povertà e di sofferenza sempre più irredimibile; (b) che la globalizzazione, lungi da stemperare le differenze tra i primi e gli ultimi non abbia fatto che acuirle in modi e misure sempre più intollerabili.

 

In verità le cose non stanno proprio così. Da quando la globalizzazione s’è imposta, le differenze sul piano dell’aspettativa di vita non hanno fatto che ridursi e se si riducono su questo piano, ch’è quello che riassume tutti gli altri piani, sociali, economici e culturali, allora la conclusione si tira da sola: gli ultimi rimangono gli ultimi, è vero, ma lo sono un po’ meno, anzi, meglio, un bel po’ meno. Incredibilmente, infatti, se tra il 1990, ovvero quando la globalizzazione ha cominciato la sua decisa ascesa, e oggi la speranza di vita nel mondo è passata da 64,2 a 72,6 anni, con un aumento di 8,4 anni, nello stesso periodo la speranza di vita dei paesi ultimi del mondo è passata da 51,1 a 65,2 anni, con un aumento di 14,1 anni.

 

Ci sono due annotazioni da fare, a proposito di questi dati. La prima: nei paesi ultimi del mondo si vive oggi in media un anno di più di quanto si viveva globalmente nel 1990 – e nel 1990 non è che il mondo fosse così arretrato e denutrito. La seconda: tra il 1990 e oggi, ovverosia in 29 anni di calendario, i paesi ultimi del mondo hanno fatto segnare un aumento della vita media di oltre 14 anni, ciò che sta a significare che il miliardo di persone maglia nera per redditi prodotti e percepiti ha incrementato la sua speranza di vita di mezzo anno per ogni anno di calendario trascorso, un ritmo di crescita della vita media che ha letteralmente dell’incredibile: una media di 10 anni di vita in più ogni 20 anni di calendario, un balzo che non si era mai visto e mai più si vedrà nella storia dell’umanità. Un balzo compiuto, e qui è il quantum, al tempo della globalizzazione imperante. Vogliamo aggiungere, senza minimamente forzare il senso e la direzione dei dati, grazie in buona parte alla globalizzazione?

 

E tutti questi risultati relativi ai paesi ultimi della terra – il dimezzamento del distacco in termini di speranza di vita rispetto al resto del mondo, una speranza di vita più alta di quella che il mondo registrava in anni a noi assai vicini come il 1990, un ritmo di incremento della speranza di vita, sei mesi ogni dodici mesi, che non ha l’eguale nella storia dell’umanità – vengono annotati dall’Onu con l’anodina formula del gap di 7,4 anni di vita media in meno che ancora fanno registrare rispetto alla vita media globale? Che senso ha? E c’è da meravigliarsi se, su questa scorta, e su quella di tante e tante pubblicazioni e viene quasi da dire predicazioni tutte tagliate sulla misura dei distacchi che ancora persistono, e nient’affatto su quella dei distacchi pur se solo parzialmente colmati, è tutto un j’accuse contro la globalizzazione e un raccontare gli ultimi della terra come precipitati indistintamente e globalmente in un abisso di guerre e tragedie, violenze e povertà, oppressioni e sradicamenti, in una parola in un susseguirsi di disumanità una via l’altra, nota distintiva di una umanità che non fa che perdere se stessa? Ed ecco infatti l’Onu passare quasi sotto silenzio il fatto che tra il 1990 e oggi il tasso di mortalità nei paesi ultimi della terra s’è più che dimezzato, che la mortalità infantile e la mortalità entro i primi cinque anni di vita si sono contratte dei due terzi, a colpi di ribassi che quei paesi si sognavano quando la globalizzazione non era così intrusiva e invadente e che sono i più consistenti tra tutti i paesi, sviluppati e no. Insomma, occorre metterci d’accordo: coi dati, in primis, ma anche con noi stessi che raccontiamo e mostriamo solo il peggio degli ultimi della terra.

 

Intendiamoci, non che ci sia molto di cui stare allegri, ma i dati dimostrano che non ci sono paesi irrecuperabili. Il forte aumento della speranza di vita anche nei più poveri e disgraziati paesi dell’Africa subsahariana non può che significare che le aree della povertà estrema, della fame, della mancanza di ogni cura, dell’abbandono da parte delle istituzioni internazionali sono in restrizione e se così non sembra essere è perché sono proprio quelle le aree dove la popolazione è aumentata in misura tale da apparire estrema. La popolazione dell’Africa subsahariana tra il 1950 e oggi è aumentata di sei volte, raggiungendo quasi 1,1 miliardi di abitanti, da meno di 200 milioni che era. Ma i 200 milioni di abitanti del 1950 campavano 35 anni, oggi quell’oltre un miliardo ne campa 64, di anni: 29 anni di più.

  

I paesi ultimi del mondo hanno oggi davanti a sé, pur se vengono raccontati quasi esclusivamente attraverso vicende di conflitti e miseria, prospettive inaspettatamente più favorevoli che derivano dal combinarsi di due tendenze: quella cui abbiamo accennato alla contrazione della mortalità e quella non altrettanto robusta e tuttavia anch’essa rimarchevole alla riduzione del numero medio di figli per donna, sceso da 6 a 4, sempre dannatamente troppi, negli ultimi trent’anni. Meno bambini che nascono, più persone che diventano adulte e invecchiano hanno già determinato nei paesi ultimi del mondo una più forte crescita della classe d’età di 25-64 anni, ovvero di quella ampia fascia della popolazione in età lavorativa la cui adeguata consistenza rappresenta la condizione sine qua non dello sviluppo economico. Questo “demographic dividend”, com’è conosciuto dagli studiosi, può però agire (e, anzi, agisce senz’altro) anche nel senso di incrementare i flussi migratori, ove non riesca a trovare, come in effetti al momento non trova, una adeguata soddisfazione nei paesi di origine. Ed ecco perché la strategia cosiddetta dell’“aiutiamoli a casa loro” è tutt’altro che una facile scappatoia, se non addirittura un parlar d’altro di fronte a temute ondate migratorie che dai paesi più sfortunati minacciano di premere più di quanto già non succeda ai confini dell’Europa e non solo a quelli. Con riferimento all’Italia, e al governo appena formato, lontanissimo si spera da rigurgiti salviniani, questa conclusione sembra ergersi a doveroso promemoria per affrontare come si conviene nel contesto europeo la vexata quaestio dei flussi di migranti in essere e potenziali verso le nostre sponde. Accoglienza e integrazione sono, al netto delle possibilità e delle esigenze del nostro paese, doverose, ma altrettanto lo sono politiche attive per portare là, in quei paesi, più sviluppo e benessere. Una politica, quest’ultima, che non è nient’altro che un adeguamento della globalizzazione ai tempi e alle necessità dell’oggi. E’ per così dire la globalizzazione nella sua veste migliore.

 

Negli ultimi anni si è fatta più netta – è vero – la suddivisione tra paesi con saldi migratori negativi per motivi legati all’economia e al lavoro e paesi con saldi migratori negativi a causa di conflitti e guerre. Dai paesi del nord Africa e subsahariani, che sono quelli che ci riguardano più da vicino, si fugge e si emigra al contempo: instabilità e corruzione politica, conflitti locali, guerre etniche, terrorismo religioso di matrice islamica, sono molte le ragioni che si aggiungono a economie stentate incapaci di sporgersi, anche in presenza di risorse e materie prime considerevoli e di qualità, oltre l’orlo di una peggio che mediocre sussistenza. Matasse problematiche che sembra impossibile riuscire a districare. Ma i paesi più sviluppati, gli organismi internazionali, la globalizzazione debbono avere la forza di provarci più convintamente. I dati che abbiamo illustrato dicono, in fondo, che una sollevazione dall’inferno della povertà è possibile anche per i paesi che sono gli ultimi della terra.

 

In settembre, Papa Francesco è stato per la quarta volta in Africa, sottolineando con ciò la centralità di questo continente nelle politiche e per gli equilibri mondiali. Una visione più lunga e attenta della globalizzazione è decisiva, a dispetto dei suoi tanti detrattori, per affrontare un problema di questa portata. L’Italia ha tutto l’interesse, ora ch’è libera da pregiudiziali antieuropee, a spingere senza timidezze per costruire una strategia europea che lo affronti con tutta la decisione possibile.

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