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Favole demografiche

Alberto Brambilla

Lo stato-balia ci ha castrati? Se l’assistenzialismo (non la crisi) è complice dell’inverno delle culle

Roma. Una delle favole più raccontate per spiegare il declino demografico è quella che la crisi economica, falce alla mano, svuota le culle. O, almeno, deprime la voglia di riempirle. Purtroppo la demografia non è una scienza esatta per cui a maggiore benessere corrisponde maggiore fecondità, e viceversa il contrario. In “Storia minima della popolazione del mondo” (il Mulino, 2016) Massimo Livi Bacci, professore di demografia all’Università di Firenze, nota che la crescita del pil pro capite si è accompagnata, in una prima fase, a sostenute diminuzioni della fecondità mentre in seguito a incrementi del pil sono corrisposti regressi della fecondità via via più contenuti fino a diventare nulli in una fase di maturità economica. Livi Bacci mette in guarda dal prendere la relazione tra diffusione del benessere e controllo volontario delle nascite come fosse una legge. Ma soprattutto afferma che “l’attuale indifferenza della fecondità ai diversi livelli di reddito è indice che altre complesse motivazioni governano le coppie, con scarsa connessione con la disponibilità di beni materiali”.

   

Le situazioni di crisi economica generale fanno insomma parte di una serie di fattori che possono spingere a decidere se procreare o no – ma non sono determinanti. Ci sono scelte di organizzazione della propria esistenza, vincoli di carattere normativo, maggiore libertà sessuale, e da ultimo un mondo modificato brutalmente che cambia gli stili di vita anteponendo altre esperienze all’esperienza di genitore. D’altronde in Italia il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna in età feconda), già declinante dagli anni Venti, subisce un calo tra gli anni Settanta e Ottanta in un periodo successivo al boom post bellico caratterizzato dalla diffusione del benessere in occidente, i riflessi della “grande moderazione” americana. Chi ha osservato il fenomeno in un arco di tempo secolare e da una prospettiva poco battuta è stato Hans-Hermann Hoppe, economista tedesco, anarco-capitalista e allievo di Murray Rothbard, in “Democrazia: il dio che ha fallito” (Liberilibri, 2006). Per Hoppe il motivo per cui in occidente il numero dei figli è diminuito e la popolazione endogena è in calo o stagnante trae origine dall’avvento degli stati democratici, quando la spesa sociale comincia a superare il 50 (o poco meno) del totale. “Sollevando progressivamente gli individui dalla responsabilità di dover provvedere alla propria salute, sicurezza e vecchiaia, la sfera e l’orizzonte temporale di previdenza privata si sono ridotti”.

 

Banalmente se so che lo stato mi sosterrà fino alla tomba non avrò bisogno di un erede che mi faccia da stampella nella vecchiaia. “Il valore del matrimonio, della famiglia, dei figli è diminuito perché di tutto questo vi è meno bisogno quando si può fare affidamento sulla ‘pubblica’ assistenza”. Il welfare diffuso ha per esempio reso la scelta di divorziare meno critica rispetto al passato, quando la moglie era legata al marito, visto che l’assistenza non è negata in caso di separazione. Proseguendo il ragionamento, la prospettiva di ricevere aiuto dallo stato applicata alla natalità può convincere una coppia ad ambire a un sostegno che sarà inversamente proporzionale alla percezione della propria condizione: se penso di non potere far figli per le mie difficoltà economiche posso ritenere ragionevole un aiuto maggiore dalla collettività; peggio mi sento e più vorrei avere. Dagli anni Settanta l’Italia vede la politica demografica in quest’ottica, non tanto come sostegno alla famiglia ma come un’azione di contrasto all’esclusione sociale, favorendo le coppie con un reddito basso. L’idea che il ceto medio ha tutte le possibilità per procreare e quindi può essere abbandonato è fuorviante.

 

Secondo un’analisi del Sole 24 Ore, nelle province dove il tasso di occupazione è tra il 60-70 per cento e il reddito medio tra i 15-20 mila euro si mettono al mondo meno figli di quanti ne nascano in aree disagiate. In Francia si proteggono il ceto medio e alto con sostegno alle coppie con due figli. I francesi fanno 300 mila nati in più rispetto agli italiani. In Italia nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe 12 mila bambini in meno rispetto al 2015, mentre i morti aumentano. In prospettiva la popolazione invecchierà, diminuirà la porzione in età da lavoro, aumenterà quella assistita. Un’analisi di Marco Valerio Lo Prete su Public Policy nota che dall’ultimo studio in materia della Banca centrale europea emerge un futuro fosco: dall’effetto sulla forza lavoro (calante) a quello sui livelli di spesa sanitaria, previdenziale e di debito pubblico (in aumento), passando per un effetto spiazzante sulla gestione del cambiamento tecnologico “l’inverno demografico è alle porte per tutto il continente, ma soltanto in Italia questa nuova stagione avrà il potere di accentuare praticamente tutti i vizi di una economia già sclerotizzata. Siamo di fronte una nuova spietata versione della Legge di Murphy: considerate le nostre debolezze strutturali, con questa demografia, se qualcosa potrà andare male per l’Europa, per l’Italia andrà anche peggio”.

   

Spesso si invoca l’immigrazione come soluzione. Un’altra favola. Le banche centrali smentiscono. In passato Mario Draghi, riferendosi all’Europa, aveva avvertito che “anche un’immigrazione attesa più numerosa di quella attuale difficilmente potrà invertire totalmente” il declino. Più di recente un paper di Banca d’Italia conclude: “I flussi migratori (previsti) potranno limitare il calo della popolazione complessiva, della popolazione in età lavorativa e dei tassi di occupazione, ma non saranno in grado di invertire il segno negativo del complessivo contributo demografico”. Un “aiuto” esterno non basta, una politica per la natalità è più utile di una non-politica, ma la scelta resta personale.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.