Operazione di salvataggio al largo della costa libica (foto LaPresse)

La lotta giusta contro l'estremismo umanitario

Claudio Cerasa

Al centro dell’emergenza migranti c’è un grande scontro culturale tra il fronte unico dell’accoglienza e il fronte alternativo al lobbismo etico. Dove si nasconde la demagogia e perché l’Italia seguirà la linea Macron: via i migranti economici

La frase ‘aiutarli a casa loro’, se non si dice come e quando e con quali risorse precise, rischia di non bastare e di essere un modo per scrollarsi di dosso le responsabilità”. Le parole molto dure messe in fila ieri dal segretario generale della Cei Nunzio Galantino (parole indirizzate al governo e al segretario del Pd) dimostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che per mettere a fuoco il senso dello scontro politico e culturale relativo alla famigerata “emergenza migranti” bisogna concentrarsi non solo sui dati quantitativi, ovvero sul numero degli arrivi, ma soprattutto sui dati qualitativi, che coincidono con quello che è il vero succo della battaglia in corso nel nostro paese sul terreno delle politiche di immigrazione: lo scontro tra il partito unico dell’accoglienza, che sogna di abbattere muri e trasformare l’Italia in un modello di inclusione multiculturale, e un altro grande partito che senza troppi giri di parole il ministro Marco Minniti, e non solo lui, definisce come “il fronte dell’anti estremismo umanitario”.

 

Bisogna partire da qui, da questa grande e trasversale divisione culturale, per provare a rispondere ad alcune domande che ci possono aiutare a capire meglio cosa c’è davvero in ballo oggi, nel nostro paese, alla voce emergenza migranti. Le domande riguardano quattro punti cruciali intorno ai quali svilupperemo il ragionamento: le condizioni dell’Italia, la partita con l’Europa, il confine della Libia, lo stato del Mediterraneo.

Punto numero uno: come è possibile che un paese all’interno del quale vivono 60 milioni di persone si ritrovi in uno stato di semi emergenza in seguito all’arrivo di un numero di migranti che coincide ad appena un +10 per cento in più di arrivi rispetto allo scorso anno? Alla data del 13 luglio, i dati offerti dal ministro dell’Interno ci dicono che sono 86.123 i migranti sbarcati sulle nostre coste, contro i 78.255 del 2016. E’ un aumento, per l’esattezza, del 10,5 per cento, che mostra però un incremento maggiore negli ultimi dieci giorni. Il 4 luglio sono sbarcati 64 migranti (zero nel 2016), il 5 luglio 461 (zero nel 2016), il 6 luglio 2618 (15 nel 2016), il 7 luglio 2391 (49 nel 2016), l’8 luglio 639 (zero nel 2016), il 9 luglio 125 (4 nel 2016), il 10 luglio 156 (zero nel 2016), l’11 luglio 240 (8 nel 2016), il 12 luglio 902 (282 nel 2016). Numeri, come si vede, in evidente crescita che continuano però a non spiegare fino in fondo la ragione dell’emergenza. L’emergenza numerica, da un certo punto di vista, c’è, ma non tanto per i numeri assoluti quanto per quelli relativi.

 

L’accordo siglato lo scorso anno tra il governo e l’Anci prevede un tetto massimo di 200 mila migranti accolti nei comuni (2,6 migranti ogni mille abitanti). E il problema non è tanto che quel tetto verrà superato in abbondanza alla fine del 2017: il problema è che solo un terzo dei comuni italiani ha scelto di accogliere i migranti ed è come se un piano di accoglienza tarato su 60 milioni di persone fosse improvvisamente tarato su un terzo di quella popolazione. Si tratta naturalmente di un problema significativo che da solo non basta però a spiegare quali sono i veri termini della partita in corso. E per capire bene il succo della discussione, prima di andare in Libia, in Europa o nel Mediterraneo, ci tocca fare un salto in un paese che si affaccia su un altro mare, il Golfo del Bengala, e che dista dall’Italia non poche centinaia di chilometri, come la Libia, ma 7.303 km, come il Bangladesh.

 

La vera emergenza relativa al fenomeno dell’immigrazione si spiega partendo da qui. E per capire perché bisogna tornare ad alcuni dati diffusi proprio ieri dal ministero dell’Interno. I dati riguardano le nazionalità dichiarate dai migranti al momento dello sbarco in Italia nel corso dei primi sei mesi del 2017. Leggete bene i numeri. 14.504 arrivano dalla Nigeria; 8.268 dal Bangladesh; 7.844 dalla Guinea; 7.455 dalla Costa d’Avorio; 5.022 dal Gambia; 4.914 dal Senegal; 4.862 dal Mali; 4.553 dall’Eritrea; 4.190 dal Marocco; 4.051 dal Sudan (di altre nazionalità sono i casi di 20.460 migranti).

 

Questo significa che solo uno di questi paesi citati (ovvero l’Eritrea e in parte la Nigeria) coincide con una realtà politica all’interno della quale esiste un conflitto tale da giustificare una migrazione verso il nostro paese per ragioni diverse da quelle economiche. Il caso del Bangladesh è giustamente considerato importante al Viminale perché fotografa meglio di ogni numero il vero problema legato all’immigrazione che arriva nel nostro paese: più o meno tutti gli 86.123 migranti arrivati in Italia nel corso del 2017 hanno fatto una richiesta di ingresso alle nostre istituzioni per ragioni umanitarie, ma secondo i calcoli del Viminale solo il 30 per cento di questi ha il diritto a restare nel nostro paese come profugo. Gli altri no.

 

A partire naturalmente da coloro che partono dal Bangladesh, prendono l’aereo, arrivano a Istanbul o al Cairo, poi si mettono in coda alle carovane che arrivano in Ciad, in Niger o in Mali, passano dal confine subsahariano in Libia, arrivano a Sabrata, nella Libia nord occidentale, salgono su un gommone e in qualche modo arrivano illegalmente in Italia. Ed è seguendo questo percorso che si può provare a capire fino a dove si può spingere nei prossimi mesi una politica di governo dell’immigrazione brutalmente definita da Matteo Renzi con una formula giusta ma grezza, che non permette di cogliere fino in fondo quali sono i termini della questione: “Aiutiamoli a casa loro, non possiamo accogliere chiunque, serve un un numero chiuso”.

   

La prima questione, non esplicitata a sufficienza in questi giorni, è che il ministro Minniti ha scelto di seguire da qui alla fine del suo mandato una linea molto dura finalizzata a raggiungere lo stesso obiettivo messo in campo oggi dal presidente francese Emmanuel Macron: accogliere i profughi che scappano da territori colpiti da conflitti e riportare a casa attraverso rimpatri forzati i migranti economici, che come abbiamo detto costituiscono il 70 per cento degli arrivi nel nostro paese. Per fare questo la strada possibile è solo una e al contrario di quello che viene decantato da molte forze populiste la soluzione non passa attraverso una svolta sovranista, ma passa attraverso una svolta europeista. Passa attraverso una richiesta che è stata proposta dall’Italia una settimana fa al vertice di Tallin, e che è stata accolta: “Il coordinamento per il rilascio di visti per i paesi che si impegnano a contrastare l’immigrazione clandestina e a sottoscrivere accordi di riammissione con l’Unione”.

 

Formula quasi incomprensibile che possiamo spiegare ancora con il paradigma del Bangladesh: se il paese da cui partono migranti economici non riprende coloro che vengono rimpatriati da un paese che fa parte dell’Unione europea riceverà da parte dell’Unione europea una politica di visti negativi, in base alla quale non verranno più rilasciati visti legali per entrare in Europa da quei paesi. I rimpatri europei sono uno degli ingredienti utili per capire cosa è il numero chiuso. Ma la dottrina del numero chiuso non la si può capire fino in fondo se non si passa prima per il Mediterraneo e poi per la Libia. La questione da approfondire è una ed è centrale: dove cominciano davvero i confini Europa?

  

Il limite più vicino alle nostre coste non è il mare ma sono prima di tutto le imbarcazioni che si trovano tra le nostre coste e quelle libiche ed è proprio su questo fronte che si contrappongono con più forza e più violenza i due partiti che abbiamo descritto all’inizio dell’articolo: il partito unico dell’accoglienza, che sogna di abbattere muri e trasformare l’Italia in un modello di inclusione multiculturale, e il partito dell’anti estremismo umanitario. La ricerca del capro espiatorio che possa aiutare a capire chi ha commesso errori nel passato recente del nostro paese nella messa a fuoco delle giuste linee da adottare sulle politiche migratorie è un gioco che serve fino a un certo punto e che andrebbe messo da parte per comprendere qual è la vera partita che oggi si disputa al centro del Mediterraneo.  

 

L’operazione Triton, come tutti sapete, è l’operazione di sicurezza delle frontiere dell’Unione europea condotta dall’agenzia europea di controllo delle frontiere, Frontex, ed è a questa operazione che bisogna guardare per capire cosa funziona e cosa non funziona nella gestione dell’emergenza immigrazione. Triton nasce il primo novembre del 2014 prima di tutto per scaricare anche sull’Europa la responsabilità dei salvataggi in mare dei migranti, e ciò che meriterebbe di essere messo a fuoco su Triton non riguarda tanto la polemica sui porti dove sbarcano i migranti (secondo fonti del governo, se entro la fine dell’anno non verrà accolta la proposta italiana di far attraccare nel nostro paese solo le navi che battono bandiera italiana, dal primo gennaio 2018 l’Italia uscirà da Triton) ma riguarda la vera ragione per cui oggi Triton non funziona più.

 

Nel momento della sua introduzione, nel 2014, la stragrande maggioranza dei salvataggi in mare veniva condotta dalle unità navali ufficiali che partecipano all’operazione, operanti sotto il comando di Roma, e autorizzate dall’Italia a sbarcare sul suo territorio. Nel giro di pochi anni, i dati sono sempre del Viminale, è tutto cambiato e il grande cambiamento coincide naturalmente con il ruolo delle Ong. Nei primi sei mesi del 2017 le percentuali di salvataggi in mare sono del tutto variate rispetto al 2014. Oggi la missione Frontex salva l’11 per cento dei migranti, la missione Sofia (missione militare dell’Unione europea) salva il 9 per cento dei migranti, la guardia costiera italiana salva il 28 per cento dei migranti e le Ong arrivano a salvare il 34 per cento di migranti intercettati in mare. Il passaggio è evidente. Oggi vi è un soggetto privato che gestisce gran parte dei flussi migratori che arrivano in Italia.

  

Di fronte a questi numeri, in Italia, si registrano reazioni di due tipi. Prima reazione: evviva le Ong che salvano vite in mare. Seconda reazione: attenzione alle Ong che salvano sì vite umane ma che agendo ai confini del diritto internazionale rischiano di far saltare ogni tipo di regola relativa alla sicurezza del nostro paese e dei nostri confini. Dunque, come si fa a governare un flusso migratorio che dovrebbe essere gestito da entità statali ma che di fatto è gestito in gran parte da imbarcazioni private? Portando lo stato a bordo delle Ong, verificando in presa diretta se le Ong si limitano davvero a salvare vite umane o tendono a incentivare le partenze degli scafisti della coste libici, mettendo insieme una serie di regole utili a identificare davvero le organizzazioni umanitarie che agiscono all’interno della cornice della legge. La grande battaglia che si andrà a configurare con forza nei prossimi mesi, tra i due partiti trasversali e contrari che si affrontano in questi giorni sulla partita dell’emergenza migranti, sarà inevitabilmente legata all’approvazione del regolamento per le Organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo proposto dal ministro Minniti.

  

I punti oggi sono undici e più significativi sono questi: “Assoluto divieto per le navi umanitarie di entrare in acque libiche, che possono essere raggiunte solo se c’è un evidente pericolo per la vita umana in mar”»; “Non telefonare o mandare segnali luminosi per facilitare la partenza e l’imbarco di mezzi che trasportano migranti, per non facilitare i contatti con i trafficanti”; “Obbligo ad accogliere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per indagini collegate al traffico di esseri umani”; “obbligo di notificare al Centro di coordinamento marittimo del proprio Stato di bandiera l’intervento, così che questo Stato è informato sulle attività della nave e può assumere la responsabilità anche per finalità di sicurezza marittima”; “Possesso di una certificazione  che attesta l’idoneità tecnica per le attività di salvataggio”. Nel momento in cui il codice verrà approvato, chi non rispetterà le norme, per la disperazione  di monsignor Galantino e del partito dell’estremismo umanitario, commetterà reato e non sarà autorizzato ad attraccare nei porti italiani.

 

Per mettere a fuoco in modo definitivo il campo sul quale si giocherà nei prossimi mesi la partita sulla gestione dei migranti, e sul numero chiuso, bisogna naturalmente arrivare in Libia, partire dalla costa e spingersi fino al confine sud con Ciad, Niger e Sudan. Se le linee del governo italiano verranno rispettate, il numero chiuso è destinato a prendere forma nel confine sub-sahariano dove l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha e avrà il compito di gestire quella fascia di confine seguendo due linee guide, fortemente sponsorizzate dal governo italiano: far coincidere di fatto il confine a sud della Libia con il confine ultimo dell’Europa e creare su quel terreno dei campi di accoglienza dove respingere e rimpatriare chi non ha diritto a una protezione umanitaria e dove accogliere i migranti e i profughi che ne hanno diritto ma ai quali – è questo il vero significato del numero chiuso – non dovrà essere permesso automaticamente di arrivare fino in Libia (dall’inizio dell’anno i rimpatri volontari assistiti portati avanti dall’Unhcr sono stati 5.000). L’ultimo passaggio del nostro piccolo viaggio riguarda le coste della Libia e la sventurata guardia costiera che risponde agli ordini dell’unico premier libico riconosciuto dalla comunità internazionale: Al Serraj.

 

I dati del Viminale relativi ai primi sei mesi del 2017 indicano un numero di salvataggi significativo fatto dalla guardia costiera libica, che a oggi ammonta a circa 10 mila persone, che se rapportato agli 80 mila arrivi di migranti sulle coste italiane rappresenta un numero significativo. Un numero sorprendente se si pensa al fatto che gli stessi paesi che agiscono sotto la bandiera di Frontex non possono offrire armi all’esercito libico (le motovedette inviate dall’Italia sono disarmate) per il semplice fatto che la Libia è ancora un paese sotto embargo. L’Italia non ha intenzione di inviare proprie truppe in Libia ma nei prossimi giorni avverrà un passaggio importante di fronte al quale si troveranno a confrontarsi i due grandi partiti trasversali che si affronteranno oggi e domani sulle politiche legate all’immigrazione: per la prima volta dai tempi della Seconda Guerra mondiale, una nave italiana armata entrerà nel porto di Tripoli.

Sarà un pattugliatore della Guardia di Finanza che offrirà un supporto logistico alla guardia costiera libica. Sono piccoli passi e piccoli passaggi di una politica che forse ha scelto di muoversi con troppo ritardo e che ha scelto per troppo tempo di considerare l’emergenza migranti solo un problema quantitativo e non qualitativo. Ma sono piccoli passaggi che ci portano a capire che oggi in Italia sta emergendo un fronte potenzialmente maggioritario che considera una priorità per il nostro paese la lotta contro il fronte unico dell’accoglienza a tutti i costi. Entrambi i fronti sono ricchi di demagogia. Ma i prossimi mesi ci aiuteranno a capire chi avrà la forza di sostenere un tentativo comunque coraggioso di proteggere i nostri confini non tanto dai migranti ma dal lobbismo etico degli estremisti umanitari.