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La casta degli italiani

Francesco Cundari

La parola d’ordine del principale movimento populista del paese nasce dieci anni fa grazie a un libro trasformato dall’establishment italiano in una bibbia

Dicono che i giornali non li legga più nessuno, che i libri anche meno dei giornali, che edicole e biblioteche faranno presto la fine dei rivenditori di videocassette. Dicono che viviamo nell’era della disintermediazione. E che di tutte le mediazioni ormai anacronistiche, la più superflua di tutte sia proprio questa che avete adesso sotto gli occhi: il giornalismo politico. Perché c’è internet. Perché ci sono i social network. Perché il politico ormai si racconta da solo, con i tweet al posto delle agenzie e le dirette facebook al posto delle interviste. Dicono che ormai giovani e meno giovani si informino così, in tempo reale, direttamente dal telefonino. Ed è tutto vero.

 

La più riuscita campagna di opinione degli ultimi decenni
è nata da un articolo
di giornale

Eppure. Eppure la più riuscita campagna di opinione degli ultimi decenni è nata esattamente come ai tempi di Emile Zola: da un articolo di giornale. O meglio, da una serie di articoli, pubblicati da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere della Sera. Articoli che sono poi diventati un libro: La casta.

 

Misurare ampiezza e diffusione dell’operazione è praticamente impossibile. Di sicuro va ben oltre il milione e trecentomila copie vendute in dieci anni, a partire da quella prima, prudente edizione da 35 mila esemplari, pubblicata il 2 maggio del 2007 e andata subito a ruba. Non per niente, “casta” è diventato uno dei termini più diffusi del lessico giornalistico e politico. “La frase ‘costi della politica’ – annotano soddisfatti gli autori nell’introduzione alla nuova edizione aggiornata del 2008 – era stata citata nell’archivio Ansa 482 volte in ventisette anni dal 1980 al maggio 2007: poco più di una volta al mese. Da allora alla fine di settembre 2008 è stata al centro di 1931 notizie d’agenzia. Più di tre al giorno”.

 

Ma ovviamente è il titolo – La casta – la parola-chiave di questa storia. Lo slogan più ripetuto, capace di varcare persino i confini nazionali: dall’estrema destra del Front National, con la stessa Marine Le Pen che oggi tuona contro “la caste politico-médiatique”, agli anarco-cazzari di Podemos in Spagna (che tuttavia, forse proprio per marcare la distanza dall’estrema destra, negli ultimi tempi hanno cercato di sostituire il concetto di “casta” con quello di “trama”, a loro parere più utile per indicare il nesso “tra la corruzione e il fallimento di un modello di sviluppo”).

 

A mettersi controvento, tra i politici di prima fila, sono in pochissimi. Praticamente uno: Massimo D’Alema

Qualcuno ha detto che un classico è un libro che viene citato anche da chi non lo ha letto. Se è così, La casta merita il titolo di classico anche più della Divina commedia, perché non citarlo è diventato praticamente impossibile. Perché, già a pochi mesi dalla sua prima uscita, poteva vantare più tentativi di imitazione della settimana enigmistica. E perché ha inventato un genere letterario a sé, che nelle librerie occupa interi scaffali.

Ce n’è per tutti i gusti: c’è la “casta bianca” sugli scandali della malasanità e la “casta rossa” sulle malefatte della sinistra, la casta delle regioni e quella delle province, la “casta della monnezza” e la “casta del vino”. La “santa casta” della chiesa e la laica casta dei radical chic. Dal 2007 a oggi, la casta e i suoi derivati sono stati l’oggetto pressoché esclusivo di talk-show e trasmissioni di approfondimento politico. Ci hanno costruito sopra canzoni e movimenti politici. Le hanno intitolato alberghi e ristoranti, e persino un porno. La casta, prima e più di ogni altra cosa, è un brand.

 

“Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”, canta l’inno del Movimento 5 stelle. Non a caso, tra i primi a saltare sul carro, con un’intervista agli autori del libro pubblicata sul blog di Beppe Grillo il 25 maggio 2007. Ma il primissimo è Enrico Mentana, che il giorno stesso dell’uscita, a Matrix, ci fa un’intera puntata, con gli autori in studio e quasi un servizio per capitolo: dal Quirinale che costa più di Buckingham Palace agli sgravi fiscali per le donazioni ai partiti superiori a quelli per chi si occupa di bimbi lebbrosi. Per mesi, il Corriere della Sera non fa più un titolo che non contenga la parola “casta” almeno nell’occhiello. Ben presto imitato da tutta la stampa italiana.

 

Il fatto è che quel libro, e prima di tutto quel titolo, è entrato non solo nel dibattito politico, ma nel costume, nella letteratura, nel modo di parlare – e quindi di ragionare – di ciascuno di noi. E pensare che all’inizio non volevano nemmeno chiamarlo così. Il titolo doveva essere I bramini. Anche perché “casta” è un termine generico, che vale per tutti: dal vertice della piramide sociale alla sua base. Ma alla fine, come ha spiegato Stella, prevalse un’esigenza di “chiarezza”. Insomma, I bramini sarebbe stato più corretto, ma “era troppo complicato, troppo intellettuale, troppo snob”. Tre aggettivi che sono già un programma.

 

A mettersi controvento, almeno tra i politici di prima fila, sono in pochissimi. Praticamente uno: Massimo D’Alema. Nel 2011 arriva a dire che chi usa l’espressione “casta” dovrebbe pagare il copyright alle Brigate rosse. “Purtroppo D’Alema non ha letto abbastanza su questo tema, o ha letto i libri sbagliati, perché il primo a usare questo termine è stato don Sturzo nel 1950”, replica Stella. Ma se è per questo, ben prima di Sturzo, lo aveva fatto anche Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, quando scriveva che “la fonte della debolezza del liberalismo” era la burocrazia, “cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”.

E prima ancora sarà capitato pure a Mazzini, Cavour o Garibaldi di dire che politici e amministratori non devono comportarsi come una casta. Ma è chiaro che la battuta di Stella sui “libri sbagliati” ha un altro bersaglio.

 

La tesi di una filiazione politico-culturale delle campagne contro la casta direttamente dall’estremismo di sinistra degli anni Settanta è contenuta infatti in due libri, scritti da Miguel Gotor, dedicati rispettivamente alle lettere e al memoriale di Aldo Moro (Lettere dalla prigionia e Il memoriale della Repubblica, entrambi pubblicati da Einaudi). Va detto però che lo storico, successivamente eletto senatore con il Pd e oggi passato a Mdp, non si riferiva soltanto a generiche invettive contro “la casta”, quanto a un processo più generale di interessata riscrittura del passato da parte dei terroristi, ma anche di tanti intellettuali in qualche modo contigui, dunque cointeressati ad accreditare una versione sostanzialmente autoassolutoria dei fatti. Versione secondo cui tanto il presidente della Dc quanto i suoi sequestratori e assassini, ad esempio, sarebbero stati vittime della “partitocrazia”, del “Palazzo”, di quella “casta” democristiana e comunista di cui pure Moro era uno dei massimi rappresentanti.

 

Breve e certamente carente elenco delle piccole e grandi cose che se quel libro non fosse uscito, o non fosse uscito in quel momento, o non fosse uscito con quel titolo, forse, non sarebbero accadute (e di sicuro non avrebbero avuto lo stesso impatto):

1) Il passaggio del tema “costi della politica” da trafiletto tappabuchi a titolo di prima pagina su tutti i giornali.

2) L’evoluzione del Movimento 5 Stelle da gruppuscolo semiclandestino a partito più votato entro i confini nazionali.

3) L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

4) La chiusura del ristorante del Senato, quello del dentice al vapore da 5 euro e 20, oggi sostituito da una tavola calda con menu a prezzo fisso (10 euro, e niente dentice).

5) La legge sul tetto ai compensi dei dirigenti pubblici.

6) La conseguente controversia, ancora aperta, sull’applicazione del tetto, in Rai, anche alle star dei programmi di maggiore ascolto e soprattutto delle fiction (secondo notizie di questi giorni, a causa del tetto, Don Matteo e Montalbano rischierebbero di fare la fine del secondo governo Prodi).

7) La caduta del secondo governo Prodi.

 

Brevissimo elenco delle manovre che secondo gli osservatori più ostili l’uscita del libro avrebbe dovuto propiziare, e che, se anche ciò fosse vero, non ce l’hanno fatta lo stesso:

1) La discesa in campo di Luca Cordero di Montezemolo.

 

“Tutto parte alla vigilia della legge finanziaria 2007”, ha spiegato Sergio Rizzo. Dunque alla fine del 2006. Tutto parte da “quelle tabelle” che il giornalista continuava a rigirarsi tra le mani, notando che le uniche voci del bilancio dove non si tagliava mai erano quelle relative agli “organi costituzionali”. Ne parla con Stella e gli propone di farci un articolo. L’altro rilancia: un’inchiesta. Eppure, stando al racconto dei due protagonisti, la campagna non sembra incontrare il successo sperato. Poco dopo la pubblicazione degli articoli, ricorda Rizzo, nel bel mezzo di una riunione, il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, gli domanda: “Come mai nessuno ci è venuto dietro?”. Un problema destinato a rivelarsi presto del tutto infondato.

 

Il libro esce il 2 maggio dell’anno successivo. In fondo, si tratta della raccolta – riscritta, ampliata e approfondita – di quegli stessi articoli usciti sul finire del 2006. E questa, la tempistica, è anche la principale ragione per cui nessuno toglierà mai dalla testa di Romano Prodi (e di molti altri) che la campagna contro la casta sia stata lo strumento con cui un pezzo dell’establishment ottenne la caduta del suo governo, entrato in carica nell’aprile di quell’anno.

E’ tutta una questione di tempi. Libri dedicati agli stessi temi, e ai quali La casta non manca di attingere, erano già usciti. Da L’Italia degli sprechi (Mondadori), pubblicato quasi dieci anni prima dal liberale Raffaele Costa, ministro della Sanità nel primo governo Berlusconi, a Il costo della democrazia (sempre per Mondadori), pubblicato da due parlamentari della sinistra, Cesare Salvi e Massimo Villone, nel 2005. Appena due anni prima del bestseller di Stella e Rizzo.

 

Tutto parte alla vigilia della legge finanziaria 2007, da “quelle tabelle” che Sergio Rizzo continuava a rigirarsi
tra le mani, notando
che le uniche voci
del bilancio dove
non si tagliava mai erano quelle relative
agli “organi costituzionali”

C’è poco da fare: il tempismo è tutto. E tutto sembra destinato ad accadere proprio allora, nel 2007. L’anno che comincia con la solenne riunione della coalizione che sostiene il governo, l’interminabile Unione che va da Marco Pannella a Clemente Mastella, nei saloni della reggia di Caserta. A pensarci oggi, scappa da ridere: a maggio di quell’anno sarebbe uscito La casta, a settembre si sarebbe tenuto il primo “Vaffa Day”, e l’11 gennaio di quello stesso anno il governo Prodi che fa? Quel governo che aveva vinto le elezioni per un soffio e si reggeva grazie al voto dei senatori a vita, quello dei cento sottosegretari e delle delegazioni al Quirinale che in tv facevano l’effetto del comitato centrale del Pcus, dov’è che decide di tenere il suo conclave programmatico, in cui gettare finalmente le basi del suo rilancio politico e di immagine? Alla Reggia di Caserta.

Enrico Mentana ha sostenuto che la vera ragione del successo della Casta sia tutta qui: nello spettacolo del secondo governo Prodi, che avrebbe fatto cadere l’illusione che la cattiva politica fosse solo quella di Silvio Berlusconi. Un gigantesco livellamento verso il basso delle aspettative, che produce una reazione di repulsione verso la politica nel suo complesso, senza più distinzioni. E’ una tesi certamente troppo severa, che contiene tuttavia un grano di verità (grano che seminiamo qui, con timida fiducia, per tutti quelli che vorrebbero tornare a una legge elettorale basata sulle coalizioni pre-elettorali).

 

Per la cronaca: l’anno si chiuderà con una battuta destinata a non passare inosservata: “Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima”. A dirlo è il ministro delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, il 7 ottobre. Meno di un mese prima, l’8 settembre, con spirito piuttosto lontano da quell’orgogliosa rivendicazione del piacere di contribuire al bene pubblico, Beppe Grillo ha riempito le piazze di mezza Italia. E’ l’urlo del Vaffa Day.

 

Il Movimento 5 stelle è diventato un fenomeno politico nazionale. Ma il merito non è solo di Grillo. “E’ la ‘visione’ della piazza gremita rilanciata da Sky e dalle prime pagine dei quotidiani on line – scrive su Repubblica Ilvo Diamanti il 27 settembre – ad aver fatto tracimare l’iniziativa, che ha invaso, a cascata, i principali media”. I dati sono inequivocabili: “La serata di ‘Ballarò’ di martedì scorso, dedicata ai privilegi e ai privilegiati della politica: 4 milioni e mezzo di audience. Ospiti di primo piano: Gian Antonio Stella, l’autore, insieme a Sergio Rizzo, della Casta. La Bibbia dei cultori del genere. E soprattutto Mastella. Il bersaglio immobile, su cui sparare a colpo sicuro. Una settimana fa: ‘Anno Zero’, il programma di Michele Santoro, dedicato a Grillo, al Vaffa Day e all’antipolitica: è andato oltre i 5 milioni. Clou della serata: la requisitoria di Marco Travaglio. Contro Clemente Mastella. Sempre lui. Ancora, pochi giorni fa, lo stesso menu su ‘Matrix’. D’altronde, Mentana è stato fra i primi a scoprire la forza di attrazione dell’argomento”.

 

A pensarci oggi, scappa da ridere: l’11 gennaio di quello stesso anno che fa il governo Prodi, che aveva vinto
le elezioni per un soffio? Dov’è che decide
di tenere il conclave
in cui gettare le basi
del suo rilancio?
Alla Reggia di Caserta

In breve, la situazione precipita. A sinistra, Walter Veltroni accelera la fondazione del Partito democratico e poco dopo annuncia che il Pd correrà da solo alle successive elezioni. Annuncio che certo avrà un peso nelle decisioni del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, che a gennaio toglierà la fiducia al governo, dopo essere stato costretto alle dimissioni da una inchiesta giudiziaria che lo vede coinvolto insieme alla moglie.

E a destra? Il grande ritorno della polemica contro i partiti, in pieno spirito del ’92, non risparmia neanche Forza Italia, il partito del nuovo per eccellenza, il movimento nato proprio all’indomani della crisi del ’92, sulle rovine dei partiti tradizionali. In questo caso, però, la contestazione degli apparati non viene dal basso, ma dall’alto. E’ infatti lo stesso Berlusconi a usare la rete dei “Circoli della libertà”, fondati dall’imprenditrice Michela Vittoria Brambilla, per fare la sua personale rivoluzione culturale contro i vecchi dirigenti che ostacolerebbero il rinnovamento.

In estate già si comincia a parlare di un appuntamento di Berlusconi e Brambilla dal notaio per registrare il simbolo del nuovo partito: Pdl. Per un po’ si pensa di chiamarlo “Partito della libertà”, ma ben presto lo spirito del tempo ha la meglio, e il nuovo logo reciterà “Popolo della libertà”. Il 18 novembre del 2007, a Milano, in piazza San Babila, Berlusconi sale sul predellino di un’auto e annuncia alla folla la nascita della sua nuova creatura: “Anche Forza Italia si scioglierà in questo movimento. Invitiamo tutti a venire con noi contro i parrucconi della politica in un nuovo grande partito del popolo”. Una tipica mossa del Cavaliere, che ancora una volta lascia spiazzati alleati, avversari e possibili concorrenti. Tra questi, probabilmente, c’è anche Luca di Montezemolo. Pure lui, come Berlusconi, è stato dal notaio per registrare il suo logo: Italia futura. Più volte è sembrato sul punto di annunciare la sua discesa in campo, con discorsi e manifesti sempre più radicali. Maoismo confindustriale, nutrito dai suoi stessi mezzi di comunicazione, dove gli esperti in materia certo non mancano.

 

“Ho lavorato fino al 2012 al Corsera che ha avuto il merito di denunciare con le grandi inchieste dei Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sprechi, malversazioni e privilegi. Fu, quella, un'intuizione giornalistica penetrante dell'allora direttore, Paolo Mieli”, ha raccontato l’ex vicedirettore del quotidiano di via Solferino, Massimo Mucchetti, in un'intervista del 2013, poco dopo essere passato dall'altra parte della barricata, come senatore eletto nel Pd. “Quelle inchieste – proseguiva Mucchetti – si accompagnavano a una campagna politica che, mettendo in luce le debolezze reali del governo Prodi, puntava sui tecnici che avrebbero dovuto avere alla loro testa Montezemolo. Una grande idea giornalistica, una piccola idea politica. E alla fine, complice una politica cieca, la guerra alla casta senza la capacità di proporre alternative reali ha generato il Movimento 5 stelle”.

 

Una tesi simile si ritrova anche nel libro di Filippo Astone, Il partito dei padroni (Longanesi), che pure non rinuncia a mettere anch’esso la parola magica nel sottotitolo: “Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia”. La tesi si può riassumere così: nonostante i vantaggi ottenuti proprio dalla finanziaria 2007, a cominciare da quel famoso taglio del cuneo fiscale che per i lavoratori si traduce in circa 8 euro in più al mese, ma per grandi imprese come la Fiat significa cifre ben più consistenti, il leader degli industriali decide di abbandonare Prodi al suo destino. “Montezemolo – scrive Astone – cavalca l’onda e commissiona al centro studi di Confindustria una ricerca sui costi della politica italiana”, che gli offre materiali per decine di interventi pubblici. Il presidente della Fiat coltiva l’idea di promuovere “un governo dei migliori”, una sorta di “rassemblement centrista che raduni i tecnici più esperti e offra una soluzione diversa ai mali italiani”. A questo, dunque, servirebbe la campagna contro la casta: “A seminare l’idea che la politica, di ogni schieramento e tendenza, è ormai del tutto inefficiente… Deve essere sostituita da chi le cose le ‘sa fare’. Come gli imprenditori, i manager, i tecnici…”. La campagna finisce però per alimentare “l’ondata berlusconiana, vista come alternativa a una classe politica parolaia, corrotta e inconcludente che gli elettori identificano soprattutto nel centrosinistra… E così, nell’aprile 2008, Silvio Berlusconi vincerà trionfalmente le elezioni politiche, mandando in soffitta le fantasie dei governi tecnici e dei migliori”.

 

Quando però la crisi del governo Berlusconi esploderà, nell’autunno del 2011, quelle fantasie faranno presto a tornare in campo, e ad andare a tirarle fuori dalla soffitta sarà tra i primi proprio il Corriere della Sera. Del resto, la retorica anticasta è un ingrediente essenziale della campagna a favore dei tecnici: gli unici, proprio perché fuori dai partiti, giudicati all’altezza dell’indispensabile opera di risanamento finanziario e morale ormai improcrastinabile.

 

L’episodio rivelatore del clima che si respira è forse quello che va in scena alla Borsa di Milano, durante una visita del presidente del Consiglio Monti, a pochi mesi dal suo insediamento. “Roberta Furcolo – riporta il Corriere del 21 febbraio 2012 – va dritta al tema: ‘Nell’agenda di governo si prevede di attaccare la casta, ridurre il peso della macchina dello Stato e cercare meno il consenso delle parti sociali?’. L’ex dirigente di Intesa Sanpaolo e moglie di Alberto Nagel (amministratore delegato di Mediobanca) lo chiede a Mario Monti…”. C’è poco da fare, la casta sono sempre gli altri. Del resto, proprio uno degli indubbi risultati ottenuti dalle campagne di Stella e Rizzo, e cioè la meritoria scelta del governo Monti di mettere on line i redditi dei ministri, permetteva di inquadrare assai meglio il tema. Qualche esempio? Come avvocato, Paola Severino aveva guadagnato, l’anno precedente, 7 milioni di euro; come ministro della Giustizia ne avrebbe incassati poco meno di duecentomila. Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, prima di diventare ministro dello Sviluppo economico aveva guadagnato tre milioni e mezzo di euro (ma disponeva di un patrimonio ovviamente ben superiore a quello dello stesso avvocato Severino). E così via.

Non per niente, giusto un mese prima della crisi che avrebbe portato alla caduta di Silvio Berlusconi e all’ascesa di Mario Monti, come l’allodola che annuncia il mattino, sul Corriere della Sera era apparso l’annuncio a pagamento di uno dei suoi editori di maggior spicco, Diego Della Valle: “Politici ora basta”. Questo il severo incipit: “Lo spettacolo indecente e irresponsabile che molti di voi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda la buona parte degli appartenenti a tutti gli schieramenti politici”. Il manifesto, non meno solenne che involuto, era seguito pochi giorni dopo da un analogo ultimatum – “Politici, il tempo sta per scadere” – sempre nella singolare forma dell’appello rivoluzionario a pagamento, firmato questa volta dalla signora Gigliola Ibba.

 

“Una grande idea giornalistica, una piccola idea politica. E alla fine, complice una politica cieca, la guerra alla casta senza la capacità di proporre alternative reali ha generato il M5s” (Massimo Mucchetti nel 2013)

Certo non può stupire che gli argomenti dell’editore del Corriere della Sera e quelli di una sua facoltosa lettrice coincidessero alla perfezione con quello che il Corriere della Sera scriveva ogni giorno sulla casta e sui costi della politica. Semmai, questo improvviso bisogno di scrivere di proprio pugno sul giornale che pure si possedeva (nel caso di Della Valle), questo ennesimo rifiuto della mediazione (nel caso specifico giornalistica) da parte del mondo imprenditoriale, segnalava ancora una volta un disagio, una difficoltà con il circuito della rappresentanza democratica. A cominciare dal linguaggio con cui Della Valle, peraltro vecchio amico e sostenitore proprio di Mastella, si scagliava contro quei politici, “di qualunque colore essi siano”, che si erano “contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del paese”, ai quali “saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi”. Parole da cui traspariva un disprezzo per la politica persino superiore a quello che mostrava per grammatica e sintassi della lingua italiana. A dimostrazione di quanto labile fosse divenuto il confine, nella società dell’informazione-spettacolo, tra vittime e detentori del potere persuasivo dei media, tra aristocrazia e plebe, tra burattinai e burattini. La campagna contro la casta, infatti, è stata in questi anni anche un gioco di ruolo, ma soprattutto un gioco di specchi.

 

“L’egemonia culturale del Pci fu voluta e ricercata da gente di qualità (i dirigenti comunisti di allora), i Cinquestelle potrebbero beneficiare di una egemonia culturale non per meriti propri ma per dabbenaggine altrui, perché altri ne hanno creato le condizioni”, ha scritto Angelo Panebianco sulla prima pagina del giornale da cui nel 2007 era stata lanciata la campagna contro la casta. Dieci anni dopo.

Di sicuro, a pensarci oggi, è un bel paradosso. Il giornale della borghesia, il giornale delle banche e della Fiat, il “salotto buono”, che lancia la campagna che diverrà la parola d’ordine del principale movimento populista e anti-establishment del paese. Quel Movimento 5 stelle che fino ad allora, con la sua battaglia per allontanare dal Parlamento i condannati e per cambiare la legge elettorale, partita nel 2005, stentava a trovare cinquantamila firme. E che solo pochi mesi dopo l’uscita del libro, con il primo Vaffa Day, ne raccoglierà più di trecentomila.

 

E in effetti, dieci anni dopo, questa è la vera peculiarità italiana che salta all’occhio. Perché corruzione e scandali, familismo e clientelismo ci sono ovunque, contrariamente alla pessima retorica su tutte le cose che capiterebbero “solo in Italia”. Alla Casa Bianca i più stretti familiari del presidente hanno pure l’ufficio. Il candidato dei gollisti alle presidenziali francesi, François Fillon, è da mesi sui giornali per avere assunto e fatto pagare per anni la moglie come assistente parlamentare. Quello che davvero accade “solo in Italia” è che le parole d’ordine dei populisti vengano non dall’equivalente italiano di Breitbart, ma dall’equivalente del New York Times o del Washington Post. Cioè dal Corriere della Sera, in questo subito imitato da tutti i più grandi giornali che dovrebbero rappresentare l’informazione di qualità.

Quello che accade “solo in Italia” è che le parole d’ordine dei populisti vengano non dall’equivalente di Breitbart, ma dall’equivalente del New York Times o del Washington Post. Cioè dal Corriere della Sera

Nel frattempo, dal 2007 a oggi, molta acqua è passata sotto i ponti, molti tagli sono stati fatti, ma non è che sia cambiato granché. A ogni aggiornamento, i segugi dell’anticasta hanno avuto buon gioco a dire che sì, qualcosa di buono si era fatto qui e là, ma c’era sempre qualcos’altro di ben più grosso e di ben più serio che non era stato fatto per niente. Oppure, aggiungendo al danno anche la beffa, che era stato fatto fin troppo. Perché poi: chi ve l’aveva detto di cancellare del tutto il finanziamento pubblico ai partiti, che c’è praticamente in ogni paese democratico del mondo?

Non è solo il gusto di fare gli schizzinosi o i bastian contrari. Il problema è reale. C’è poco da discutere: se si vuole intervenire seriamente su quei famosi “organi costituzionali” da cui tutto era partito, occorre, evidentemente, riformare la Costituzione. E sappiamo com’è andata l’ultima volta.

D’altronde, anche quello che è stato fatto di concreto, non si vede. Non passa. Per esempio: ammesso che non ci fossero buoni argomenti per agevolare maggiormente le donazioni ai partiti, tanto più dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, sta di fatto che gli sgravi fiscali per le donazioni ai partiti sono stati equiparati agli sgravi per le onlus. Ma questo non alleggerisce di un grammo il peso dell’immagine che Stella e Rizzo avevano messo addirittura nel titolo di un capitolo: “Meglio a noi che a Madre Teresa – Più sconti fiscali per le donazioni ai partiti che ai bimbi lebbrosi”.

 

Ai pochi che nel corso di questi anni si sono permessi di criticarli, gli autori hanno sempre risposto di essersi limitati a denunciare sprechi e raggiri, nel modo più asettico possibile. Mai, hanno ripetuto spesso, abbiamo fatto ricorso a espressioni quali “magna-magna”, “papponi” o simili. E’ vero. Ma accostando gli sgravi per le donazioni ai partiti a quelli per i bimbi lebbrosi, obiettivamente, hanno fatto di peggio. Con il gioco delle false equivalenze, ricordando puntualmente quanti infermieri per curare bambini malati o poliziotti per salvare vecchiette si sarebbero potuti pagare con i soldi destinati ad altro, non c’è riforma, non c’è taglio, non c’è austerità che basterà mai. Con i soldi che ognuno di noi in un anno spende per il sapone per i piatti o il detersivo con cui lava i vetri delle finestre si potrebbero salvare chissà quanti esseri umani dalla morte per fame: questo fa di noi degli assassini? Mettere tutti i partiti e tutti i politici sotto una stessa etichetta – la casta – per caricare sulle spalle di ognuno, indistintamente, il peso di ogni singola malefatta, ogni piccolo o grande malcostume verificatosi in Italia negli ultimi trent’anni, è molto più efficace, molto più grave e molto più discutibile dell’usare l’espressione “magna-magna”. E ha un effetto molto più profondo sulla società italiana. Perché l’altra faccia di simili campagne contro la casta, se non si fosse ancora capito, è la gogna. La continua ricerca del capro espiatorio. Il gusto del linciaggio, virtuale e non solo.

 

Però è buffo. Prendiamo le tabelle che aprono l’appendice del libro di Stella e Rizzo. “L’esercito degli eletti”, per esempio, con l’elenco di tutti i parlamentari, regionali, comunali, provinciali. Oppure: “Costo degli organi costituzionali”, con tutte le spese del Quirinale, della Camera e del Senato, e pure del Cnel. Che dite, non avete anche voi l’impressione di leggere un volantino dell’ultima campagna referendaria? Proprio su questo, lo sappiamo, Matteo Renzi ha impostato tutta la partita: il taglio delle poltrone, la cancellazione delle province, la riduzione dei compensi dei consiglieri regionali. Paradossalmente, però, i suoi più accaniti avversari sono stati proprio i principali sostenitori di quelle battaglie. E sulla base di un argomento fortissimo, e anche pienamente condivisibile, pure da chi al referendum ha votato Sì. E cioè che quando si tratta dell’equilibrio dei poteri, delle istituzioni e della democrazia, e quindi della libertà di tutti, non si fa questione di prezzo.

Ecco, appunto.