Perché l'inverno del nostro scontento è prima di tutto demografico

Roberto Volpi
In Italia nascono meno bambini che in tutta Europa. I dati sulle culle vuote, lo strapotere dei pensionati e noi che diventiamo un monumento vivente alla lamentazione.

Lo scorso anno l’Italia è risultato il paese con il tasso di natalità più basso tra quelli dell’Unione europea. Un 8 per mille a fronte del 10 per mille della media continentale, ha fatto sapere ieri l’Eurostat.  Complessivamente, nei 28 paesi dell’Unione, nel 2015 la popolazione è cresciuta passando da 508,3 a 510,1 milioni. Ma ciò, osserva sempre Eurostat, è avvenuto solo grazie agli immigrati poiché tra i residenti le nascite (5,1 milioni) sono state inferiori alle morti (5,2 milioni). In questa sede, sono soprattutto i dati sul nostro paese a interessare, per le loro conseguenze a più ampio spettro. Si fa presto a dire gli italiani qui gli italiani là. Una popolazione che con la più folgorante semplicità si inquieta e indigna, si preoccupa e insospettisce, diffida più che affidarsi, si vede o già si sente vittima di qualcosa, complotti e manovre ai suoi danni, di niente si allarma, di tutto si risente, dà e toglie la fiducia da un giorno all’altro quasi a capriccio o bizza. Già, ma quali italiani? Perché qui è il punto: quali italiani? Il fatto paradossale è che gli italiani cambiano moltissimo, caratterialmente e più ancora dal punto di vista umorale, stando demograficamente parlando fermi come paracarri ai lati della strada. Cioè: non si sposano, non fanno figli – come conferma da ultimo l’Istat – e intanto invecchiano. Demograficamente parlando, appunto, stanno fermi.

 

Non c’è stata popolazione al mondo che se ne sia rimasta rigorosamente ferma immobile, al palo proprio, come quella italiana nell’ultima dozzina d’anni.  E proprio per questo non c’è stata popolazione al mondo che sia più radicalmente cambiata di quella italiana. Perché è proprio stando fermi che la struttura della popolazione ripiega su se stessa, si accartoccia e incarognisce. Si trasforma in peggio, mette su pancia e rughe, accusa acciacchi e malesseri. Non è tutta una questione di vitalità generazionale. E’ questione anche di semplice voglia e gioia di vivere, oltre che di fare, di provare, di rischiare. Ci vogliono certe caratteristiche di popolazione, certe predisposizioni demografiche per stare al meglio in una tale questione. E noi non le abbiamo, le abbiamo perse o le stiamo perdendo per strada, così hai un bel fare appello alla buona volontà, ai buoni sentimenti per andare avanti; se non hai idee forti al riguardo, tra non molto potremo mettere una malinconica croce anche su quelli. C’è da chiedersi come possa darsi creatività, come possa prodursi innovazione in un paese che, in virtù dell’allungamento della speranza di vita e dell’aumento dei flussi migratori, è sì cresciuto di 3,7 milioni di abitanti negli ultimi 15 anni, ma perdendone 2,8 sotto i 40 anni d’età e acquistandone 6,5, di milioni sopra i 40 anni d’età. Uno strano modo di crescere ch’è un vero e proprio mettere le basi, creare le condizioni per provare a lasciarsi morire. Né le prospettive si fanno meno scure se andiamo a scavare un po’ sotto la superficie e vediamo che i tre quarti di quei 3,7 milioni di abitanti in più sono rappresentati dall’aumento dei celibi e l’altro quarto da quello dei divorziati: sono solo loro che corrono, giusto quelli che demograficamente parlando hanno le più alte probabilità di non contribuire al movimento della popolazione. E questo perché l’incremento dei celibi, per capirci, non è tra i 20-30enni, che hanno tempo, ma tra i 40-60enni, e  questi ultimi di tempo ne hanno assai meno, per molti di loro, anzi, è già passato.

 

Ed ecco perché parlare di italiani non è parlare di italiani se mettiamo assieme, sullo stesso piano, nello stesso mazzo, anche soltanto quelli di venti e meno anni fa con gli italiani di oggi. Esagero? Ma se è bastato un amen tra gli inizi del duemila e oggi perché gli italiani nel pieno delle forze, del vigore fisico e intellettuale, delle capacità creative e riproduttive, quelli tra i 20 e i 40 anni, subissero una potatura formidabile di quasi 3 milioni di persone e che le schiere dei pensionati ultrasessantacinquenni s’ingrossassero di altrettante. E questo, da qualunque parte lo si guardi, non è un risultato di parità. Qui la perdita è secca, decisiva, altro che chiacchiere. E noi pensiamo che sconquassi di questa forza passino – anzi, restino – così, innocui e inosservati, come niente fosse? Con tutto il rispetto per i pensionati – sono uno di loro – stiamo diventando, siamo già, un paese a forte trazione pensionistica, e non è che la cosa possa far sprizzare di gioia chi guarda al futuro di questo paese. Rischiamo di diventare un vero e proprio monumento vivente alla lamentazione, al guardarsi indietro, al rimpianto, a quel che era e non è stato. Al rimbrotto, alla colpa è sempre degli altri, al dàgli al politico, ai mangiatori di pane a ufo, al via tutti, al lasciateci in pace e non chiedeteci quattrini. Noi italiani. Già, appunto, ma quali italiani? Quali italiani se è da tempo oramai che ci siamo demograficamente fermati e di conseguenza esistenzialmente parlando, appesantiti e incarogniti? Bisognerebbe fare di tutto per rimettere in movimento l’autobus della demografia italiana. Impresa rispetto alla quale la messa in sicurezza del sistema bancario italiano dopo Brexit è una passeggiata di salute.

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