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Giuseppe Governale, generale dell'Arma, sulle tracce degli sbirri di Sicilia
Sciascia ne ha raccontati di memorabili. Oggi il generale dei carabinieri si fa storico con "Gli sbirri di Sciascia. Investigatori e letteratura, tra arbitrio e giustizia". Attitudine e solitudine
Somma sbirritudine. Che qui è categoria dello spirito. Logica ed etica, direbbe Benedetto Croce. Qui si fa libro nell’incontro “quasi per caso” tra gli scritti di Leonardo Sciascia e l’operato del generale dei carabinieri Giuseppe Governale, una vita nella trincea della lotta alla criminalità organizzata e all’eversione. Si fa saggio storico, racconto di cose e fatti di Sicilia, analisi sugli investigatori protagonisti dei romanzi di Sciascia, resoconto di attualità mafiose, narrazione identitaria, pungolo sulla sbirritudine, e tanto altro. Perché essere sbirro è predisposizione, istinto, vocazione. “Un’attitudine. Senza alcuna accezione negativa”, specifica Governale. Anzi, se coltivata con rigore e praticata senza “pre concetti”, è metodo di lavoro “basato su criteri e non su opinioni, su princìpi e mai su suggestioni”. Un modo di guardare al contesto, di affrontare le complessità, di connettere e collegare le mille sfumature di grigio che compongono la realtà, qualsiasi realtà. Certo, sbirritudine può significare anche abuso, prevaricazione, impostura. Lo conferma, eccome, Sciascia. La storia scellerata di Matteo Lo Vecchio “sbirro infame”, realmente vissuto a cavallo tra il Seicento e il Settecento, è emblema della “mala giustizia” che tanto ossessionava Sciascia. Il quale, però, proprio a Matteo Lo Vecchio dedica una rosa. Un fiore di compassione per l’assassinio di un aguzzino efferato qual era Lo Vecchio, per la sua salma oltraggiata e abbandonata “in fondo a un pozzo secco, accanto al cadavere dello Stato”.
Il generale Governale, siciliano di Palermo, si specchia nelle pagine di Sciascia, siciliano di Racalmuto, provincia di Agrigento. Per entrambi la giustizia e l’amministrazione della giustizia sono temi vitali. Temi universali. “Tutto è legato al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”, scriveva Sciascia. Governale legge i romanzi di Sciascia come può leggerli solo uno che sa per mestiere che la giustizia può essere “strazio o riscatto”. Si identifica a tal punto in quelle pagine, sfogliate o divorate decine di volte, da saperne declamare lunghi brani a memoria. E da scriverci un libro: Gli sbirri di Sciascia. Investigatori e letteratura, tra arbitrio e giustizia, appena pubblicato da Zolfo editore con una prefazione di Marcelle Padovani, la giornalista francese che realizzò lunghe interviste proprio con Sciascia e, poi, con Giovanni Falcone, confluite rispettivamente nei saggi La Sicilia come metafora del 1979 e Cose di Cosa nostra del 1991.
Giuseppe Governale, autore letterario non alla sua prima prova, è generale di corpo d’armata, 65 anni di età di cui 46 trascorsi a servire l’Arma passo dopo passo, con incarichi operativi che dal territorio – anzi, da territori sempre più vasti – lo hanno portato fino al comando di una struttura d’élite come il Ros nel 2015 e alla direzione della Dia nel 2017. Per ultimo ha diretto le Scuole dei carabinieri, indirizzando formazione e addestramento di tutti gli allievi.
Poi, pochi mesi fa, ha lasciato il servizio attivo e ha scelto di vivere nel cuore delle contraddizioni siciliane, “nella desertica opulenza di fecondità che è l’isola”, dice, citando il Viaggio in Sicilia di Goethe. Nel frattempo, anche se lui non ne fa cenno, è stato insignito della croce d’oro al merito dell’Arma dei carabinieri, per essere stato “esempio e sprone per il personale dipendente, assicurando soluzioni organizzative brillanti e di rara efficacia”.
Dopo aver peregrinato per il territorio nazionale, il generale è tornato dunque a casa, in Sicilia. Nel luogo in cui la linea tra arbitrio e giustizia si fa più sottile e sfumata. In cui anche un atto di ordinaria amministrazione può essere “investito di metafisica luce”, per dirla con Sciascia. E’ tornato a Palermo, nella città natale, croce e delizia per chiunque vi abiti. Ché magari non sarà “irredimibile” come sosteneva Sciascia ma è un luogo in cui un problema, qualsiasi problema, “traffico” incluso (ricordate Johnny Stecchino?), non ha mai soluzione semplice.
Ospitale e attento, come solo taluni siciliani sanno essere, Governale racconta il suo percorso di avvicinamento a Sciascia per progressioni, “come per cerchi concentrici”. Assieme alla moglie offre caffè e pasticcini nel salotto di casa, dipinti di santi alle pareti e uno scorcio barocco tra i più belli che la città possa mostrare dietro le persiane dischiuse. Certo, in principio sapeva già chi era Sciascia. Non avrebbe mai potuto ignorare l’ultimo grande autore civile del Novecento. L’ultimo a essersi fatto carico di ricordare agli italiani che per combattere mafie, malaffare e illegalità lo Stato deve presentarsi ai cittadini con “la faccia del diritto”. Il primo scrittore, per di più siciliano, ad avere parlato di mafia apertamente, narrando fatti e chiamandola col suo nome in romanzi come Il giorno della civetta del 1960 e A ciascuno il suo del 1966. Denunciando un fenomeno sotto gli occhi di tutti. E ciò nonostante ignorato nella sua drammaticità dalla grande letteratura siciliana postunitaria. E addirittura negato ancora negli anni Sessanta da vasti settori della società in Sicilia e non solo: politica, clero, organi di informazione.
Aveva già letto Sciascia, Giuseppe Governale. Visto già i film tratti dai suoi romanzi “come tanti ufficiali dei carabinieri, del resto”. Ma la folgorazione avviene una mattina del 2007 in una stanza della Procura a Catania. Trova una piccola gemma di Sciascia incorniciata dietro la scrivania di un magistrato. Una frase tratta dal romanzo Porte aperte del 1987. Un’affermazione intorno ai carabinieri, intorno ai “loro rapporti di dubitante ortografia, senza grammatica, senza sintassi, con frasi curiosamente toscaneggianti o auliche… e ogni tanto la parola che affiorava dai dialetti meridionali. Quei rapporti, pensava il giudice, erano le sole verità che in Italia corressero. Non sempre e non tutti, si capisce, ma quasi sempre e di tutti ci si poteva fidare”.
E’ il tema dell’affidabilità di chi indaga che colpisce Governale, all’epoca comandante provinciale dell’Arma a Catania. E’ quella frase riferita ai rapporti dei carabinieri: “Quasi sempre e di tutti ci si poteva fidare”. Perché termometro di credibilità. Per nulla scontata, specialmente in Sicilia.
“Sciascia sa bene che soprattutto nell’animo siciliano l’uomo della legge è uno di cui non ci si può fidare fino in fondo”, commenta Governale. E aggiunge che “è quasi impossibile scrutare completamente l’animo siciliano. Di persone di ogni condizione intellettuale, sociale ed economica”. Prevalgono diffidenza, scetticismo, disincanto.
Con un impercettibile lampo di amarezza negli occhi, con la consapevolezza che gli deriva dall’avere intrapreso “il terribile mestiere delle armi”, il generale riassume: “Sbirritudine è attitudine, ma fa rima anche con solitudine”. La solitudine dell’investigatore addestrato a considerare il prossimo tendenzialmente “con riserva”.
Non è un caso che nelle pagine di Sciascia la migliore definizione dello “sbirro vero” la dia don Mariano Arena, il boss mafioso antagonista del leggendario Capitano Bellodi ne Il giorno della Civetta. Il padrino insegna al giovane interlocutore come riconoscere “lo sbirro nato” già quando arriva in paese e “tu cominci ad avvicinarti a lui”, lo ricolmi di gentilezze, magari le mogli diventano amiche, “tu ti illudi che lui ti veda a prova d’amicizia; e invece, per lui, tu sei sempre quello che risulta dalle carte che tiene in ufficio”. I rapporti scritti, appunto. Per cui “se hai avuto una contravvenzione, per lui sei in ogni momento, anche mentre bevete il caffè in salotto, uno che ha avuto una contravvenzione”. Lo sbirro vero non è corruttibile. Cu si mitti cu li sbirri, ci appizza lu vinu e li sicarri, avverte don Mariano. Chi prova ad “avvicinare” lo sbirro perde tempo e risorse, vino e sigari. Quindi: “Non metterti in testa che gli sbirri siano tutti stupidi. Ce ne sono che, ad uno come te, possono togliere le scarpe dai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene…”. Va da sé che quelli che “sono paste d’angelo” don Mariano non li considera manco sbirri, “poveretti”.
Uno dei brani più noti di Sciascia è quello in cui il mafioso don Mariano divide l’umanità in cinque categorie: “Uomini, mezz’uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà”, riconoscendo al capitano Bellodi di essere “un uomo”. Una sorta di onore delle armi a uno sbirro esemplare, uno sbirro nato. Uno che “considerava l’autorità di cui era investito come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza”.
Nel suo libro Governale indaga a lungo sulla genesi del racconto "Il giorno della civetta", sul protagonista, il bel capitano col volto di Franco Nero nell’omonimo film di Damiano Damiani del ‘68. Documenta, anche attraverso gli archivi del Comando generale dell’Arma, la figura del “reale” ispiratore del “modello Bellodi”. Il quale fu Renato Candida, maggiore dei carabinieri in servizio ad Agrigento negli anni Cinquanta, ufficiale scomodo ma bravissimo, tanto da meritare tre encomi solenni in due anni di servizio in Sicilia per operazioni contro la criminalità “in ambiente quanto mai difficile per senso di omertà”.
Quasi per caso Renato Candida, combattente in Montenegro contro i nazisti dopo l’Armistizio dell’8 settembre del ‘43 e partigiano antifascista durante la Resistenza, divenne grande amico di Sciascia. Nonostante l’iniziale diffidenza da parte dello scrittore, l’apprensione di chi viene cercato dai carabinieri e non sa perché. L’inquietudine si sciolse quando Sciascia conobbe il maggiore Candida perché il motivo dell’incontro era che l’ufficiale aveva scritto un libro sulla mafia, assai coraggioso e assai controcorrente per quegli anni. Alla fine dallo scrittore, già noto per Le parrocchie di Regalpetra, voleva solo un parere “sulla forma più che sui contenuti”. A Sciascia il testo di Candida piacque e si adoperò perché fosse pubblicato col titolo Questa mafia nel 1956.
L’amicizia durò tutta la vita e da subito coinvolse le rispettive famiglie, le figlie di Candida e le figlie di Sciascia, le mogli che continuarono a sentirsi anche quando erano rimaste entrambe vedove. La frequentazione con Candida fu decisiva per Sciascia. Lui stesso afferma: “Non solo per Il giorno della civetta, ma per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentate alla memoria, all’immaginazione”.
Governale va oltre. Nota la capacità di Sciascia di leggere l’Arma dal di dentro, come neppure carabinieri di vario grado e responsabilità. Si riferisce al “particolare intendere il servizio d’istituto, le investigazioni, le relazioni funzionali tra colleghi e le altre non meno importanti con la società civile, con la popolazione, con i delinquenti, compresi quelli intesi per l’opinione pubblica quali uomini di rispetto”. Che sia stato Candida, anche inconsapevolmente, la porta d’ingresso di Sciascia nell’Arma? Governale ne parla come “sliding door, una sorta di chiave di volta che apre la mente di Sciascia”. L’ispirazione per creare i suoi sbirri. Sbirri di Sicilia. Bellodi, l’ispettore Rogas de Il contesto, il brigadiere Lagandara di Una storia semplice e il Vice de Il cavaliere e la morte, considerato il testamento letterario di Sciascia. Qui tra il protagonista, che è un vecchio funzionario di polizia, e un agente dei servizi segreti c’è un celeberrimo scambio di battute. Il primo dice: “Si può sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”. E l’altro ribatte: “Di tutti i cittadini in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri”.
Certo, Gli sbirri di Sciascia gravitano su fatti veri, realtà vissuta o ricercata attraverso documenti. Perfino su luoghi veri, come l’albergo Emmaus a Zafferana Etnea che diventa l’eremo di Zafer in Todo modo, romanzo del 1974 incentrato sul ruolo della Chiesa e sulle “relazioni a volte misteriose con la politica e il potere”, scrive Governale. Protagonista è un pittore “criminologo”, sbirro “ausiliario” arruolato da Sciascia per indagare su una serie di delitti che avvengono nell’eremo durante gli esercizi spirituali.
Sbirro “ausiliario” è anche l’ingenuo professore di A ciascuno il suo, sbirro volontario in questo caso. Il quale paga con la vita la sua curiosità, il suo puntiglio nella ricerca della verità. Vicenda ispirata all’omicidio del commissario Tandoy, assassinato per strada ad Agrigento nel marzo del 1960 assieme a un ragazzo che passava per caso. Scontato il movente passionale. Come afferma Sciascia: “In Sicilia non bisogna cercare la donna: perché si finisce sempre col trovarla, e a danno della giustizia”. E Governale aggiunge: “La pista si rivelò infondata. Tandoy, che assieme al maggiore Renato Candida aveva indagato sulla mafia nell’agrigentino, trasferito a Roma (nel 1959) era a conoscenza di segreti, di collusioni affaristiche tra la politica e l’organizzazione criminale”. Avrebbe potuto mettere a conoscenza di quanto sapeva Aldo Moro, suo ex compagno di liceo a Lecce e già a quel tempo esponente di rilievo della Democrazia cristiana. “Tandoy andava assolutamente fermato”, conclude Governale.