Un cammino lungo 30 giorni. Cronache dalla via per Santiago

Gery Palazzotto

La civiltà degli spagnoli, il senso della fatica e il fascino di una vacanza poco fotogenica

Il senso di questa storia può stare nell’sms del proprietario dell’appartamento che avevo prenotato a San Juan de Ortega, provincia di Burgos, Spagna. Diceva di non fermarmi, all’arrivo, all’indirizzo stabilito ma di andare avanti per 50 metri, oltre la chiesa nella strada principale e di cercare il Bar Marcela dove avrei potuto ritirare la chiave. Aggiungeva senza ironia che è difficile sbagliare dato che oltre la chiesa e la strada principale, poco più larga di un sentiero, non c’è altro nel suo paese che, mi scriveva, conta 20 abitanti. Insomma mi diceva senza dirlo che perdersi è impossibile se si ha qualcosa che tiene distanti le orecchie. Quando lo avevo raggiunto – al termine di una scarpinata in salita di quattro ore – mi aveva chiesto cosa volevo mangiare per cena “perché qui non ci sono ristoranti e la mia cucina chiude alle 20” (erano le 15). 

   

In molte tappe del Cammino francese si assiste alla rivincita del disabitato. L’arrivo di un Cammino è il contrario della fine di un viaggio

  
E’ la rivincita del piccolo, del disabitato, della pienezza del vuoto, quella a cui si assiste in molte delle tappe del Cammino francese, lo storico itinerario tra Saint-Jean-Pied-de-Port ai piedi dei Pirenei e Santiago de Compostela. Il Cammino francese coi suoi 800 chilometri è il più famoso dei cammini per Santiago, ma non il più lungo: si fa in trenta giorni. Il Cammino de La Plata, noto anche come Via de La Plata, che parte da Siviglia arriva a quasi mille chilometri (in trentasette giorni). Mentre per il Cammino del nord, il più selvaggio, che inizia a Irun nei Paesi baschi bisogna essere pronti ad affrontare sentieri per oltre 850 chilometri (servono trentacinque giorni). Più comodo il Cammino portoghese, con la sua rilassante Senda Litoral (un lungo tratto su passerelle di legno a pochi metri dall’Oceano Atlantico): si parte da Lisbona per arrivare a Santiago 620 chilometri e 28 giorni dopo.

  

   
Chilometri a parte, nei miei viaggi a piedi mi è capitato di trovare rifugio in luoghi inesistenti, di farmi bastare il poco (nonostante non abbia una predisposizione in tal senso), di inventarmi una soddisfazione. Ci sono tappe che sono davvero la sublimazione di un mondo antico in cui nel raggio di 50 metri hai tutto quel che serve per imbastire la più importante difesa contro i restanti undici mesi dell’anno. Un sorriso anarchico, tuo e solo tuo, che non va spiegato, giustificato, spacciato per altro: la soddisfazione di bastarsi senza orpelli e senza alcuna aspirazione alla beatificazione giacché non si è mai visto un santo imprecare per la calura, le pietre sulle caviglie e le salite che non finiscono mai.


Oppure, sempre per cercare di spiegare il senso di questi trenta giorni di scarpinata con una media di 26 chilometri al giorno e uno zaino di dieci chili sulle spalle, si può trovare una razionale ispirazione nella sua conclusione. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma qualcosa ti ha raggiunto. 


Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo. 


Se parlate con chiunque abbia portato a termine un percorso di questi, pellegrino o semplice camminatore che sia, riscuoterete testimonianze pressoché combacianti: accade qualcosa alla fine che in qualche modo condizionerà nuovi inizi. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa. 


In Cammino si può andare da soli o in compagnia. Io ho scelto la prima opzione perché credo che allenarsi a stare un po’ da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. 

  

Il percorso ti respinge sin dall’inizio, una ventina di chilometri di salita per scavalcare i Pirenei. Poi sarà la volta della Meseta

  
Va detto per evitare illusioni, il Cammino francese non deve essere affrontato senza una preparazione fisica. Del resto lo capisci subito con cosa hai a che fare dato che il percorso ti respinge sin dall’inizio con una prima tappa molto impegnativa, una ventina di chilometri di salita per scavalcare i Pirenei, dalla Francia alla Spagna. 


Poi, dopo giorni di estenuanti saliscendi, sarà la volta della Meseta, l’altopiano nella regione di Castiglia y León freddo d’inverno e rovente d’estate. In questo scenario gli alberi diminuiscono di giorno in giorno. C’è una tappa addirittura in cui la guida e le mappe indicano con precisione il chilometro in cui si troveranno alcuni pioppi e una quercia. E poi nulla.

  

  
La stessa guida avverte di fare attenzione perché “in questi luoghi le illusioni ottiche sono frequenti ed è spesso difficile calcolare le distanze”. Qui gli animi più poetici si sono inventati un mantra: i miraggi non hanno mai condotto alla meta, ma probabilmente senza un miraggio molti non si sarebbero mai messi in viaggio. Quelli più scafati invece risparmiano energie persino sull’immaginazione e non mollano lo sguardo sull’infinita distesa di pietre e terra che, sempre uguale, arriverà prima o poi a qualcosa o a qualcuno.


Il Cammino francese non è solo landa sconfinata e deserta, ma anche concatenazione non troppo fitta di agglomerati urbani grandi e minuscoli. C’è un fraintendimento che noi italiani, specialmente noi del sud (lo dico da siciliano) ci portiamo appresso: e cioè che il concetto di civiltà sia legato a quello di straordinarietà. Uno stato di buon equilibrio sociale, economico e culturale è per molti di noi un evento giubilare, un’eccezione, una moneta da conservare nel salvadanaio della storia. Invece ogni volta che ci troviamo in paesi non dissimili dal nostro – tipo la Spagna, appunto – ci allineiamo con malcelata difficoltà al concetto di civiltà reale: quello di benessere ordinario.


Occhio, non c’entrano il reddito pro capite e altre robe da economisti, ma la semplice constatazione di pulizia, il viaggio nelle pieghe rassicuranti delle province, l’attenzione riscossa (e restituita) da tutto ciò che è pubblico.

   

Il pellegrino è sia una risorsa economica che una propaggine storica di una tradizione secolare. Il turista qui non è il benvenuto, è il padrone

   
L’itinerario della Navarra, altra regione attraversata dal Cammino francese, è un esempio mirabile di cura e attenzione per il turista. In ogni città esiste una segnaletica stradale apposita per i camminatori/pellegrini: corsie sui marciapiedi, cartelli diversificati per chi va a piedi e per chi è in bici, attraversamenti pedonali ad hoc (quasi un effetto speciale per chi, come il sottoscritto, proviene da un posto in cui se passi sulle strisce devi ringraziare l’automobilista che non ti ha arrotato). Nei piccoli centri va ancora meglio. Dato che il camminatore/pellegrino è sia una risorsa economica che una propaggine storica di una tradizione secolare, il suo ingresso nel centro abitato non avviene per scavalcamenti, sentieri semi-clandestini o viuzze secondarie, bensì attraverso la via principale. Quando sono entrato in un paese che si chiama Cirauqui, che in basco significa nido di vipere, proveniente da una collina arsa e faticosa, dopo qualche passo ero già nel centro del paese e mi aspettavo che da un momento all’altro spuntasse la banda (che pure avevo incrociato prima, a Puente La Reina). Il turista qui non è il benvenuto, è il padrone. Con tutto il carico di giuste illusioni che la macchina turistica sa mettere in scena. Paghi ma hai un po’ di più di quello che paghi: pulizia, attenzione, garbo. Con congruità etica, insomma si capisce che non hanno pulito per te, quindi è ancora meglio. 


In Italia i cosiddetti “menù turistici” sono una trappola, qui sono un’occasione. E nessuno approfitta dello stato di necessità di un camminatore sfiancato, la categoria di turista più diffusa in queste zone: nei centri abitati che si incontrano lungo il Cammino nessuno ti fa pagare l’acqua a peso d’oro anche perché le fonti pubbliche sono dappertutto e ovviamente gratuite. Meno onanismi urbanistici, meno chiacchiere, meno colpi di teatro, più realismo. Sono le piccole cose che fanno grandi le buone idee: alcuni nostri amministratori dovrebbero viaggiare di più a piedi.


Prima dei social le nostre vacanze erano belle o brutte come tutte le vacanze. C’erano le fregature e le scoperte, con tutti i gradi intermedi. E soprattutto esisteva il così così. 

 
Il così così risolveva ogni dubbio, eliminava ogni decisione, appianava ogni diatriba.


Com’è andata? Così così. Amen.

  

   
Oggi è impensabile un giudizio così poco fotogenico, non screenshottabile. La mezza misura è bannata in un mondo in cui il padrone di una gran fetta dei social è un miliardario che fomenta le folle e soffia sul fuoco anche per il peto di una vacca (oddio la metafora è abominevole, ma tutto sommato scialba rispetto ai contenuti di X). Un’esperienza come il Cammino francese può aiutare ad aggirare questa dittatura degli estremi, o “meraviglioso” o “merda”, o “lasciatemi qui” o “vergogna”, o “se è porno tolgo” o “da dimenticare”. 


Mi è capitato più volte di trovarmi in situazioni dove il così così è stato un discreto compromesso. Una volta, qualche anno fa, mancai clamorosamente un paese, che a dire il vero non si trovò mai come se fosse scomparso dalla carta geografica o come se al contrario fosse stato segnato solo sulla mia – tipo romanzo di Stephen King - e riparai a casa di una signora che ebbe pietà di me. Un’altra volta il tale che doveva ospitarmi nel suo B&B si fregò i soldi e vendette la camera a un altro, mi accampai davanti al portone per fargli assaggiare le mie rimostranze solide ma poi fui convinto a ripiegare in un nonviolento rimborso spese. In questo Cammino un bell’albergo (uno dei pochissimi) che doveva ospitarmi nel centro di León si è mangiato la mia prenotazione rimbalzandomi in un anonimo hotel in periferia. Anche qui esercizio olimpico di pazienza a corpo libero e via andare (di reclamo). 


Accade. Se è vero che viaggiare è vivere, è anche vero che nella vita di tutti i giorni spesso va benissimo, raramente va male, ogni tanto va così così.


In una indimenticabile sequenza de “L’attimo fuggente” si riprende una vecchia frase di Robert Frost – “Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso” – alla quale mi è capitato di pensare davanti a una fonte dalla quale sgorgava vino. Sì, proprio così, vino. Ero davanti alla fonte del monastero di Irache, una delle tappe più caratteristiche di questo Cammino, combattuto tra bere e sopravvivere, proprio in virtù di una piccola deviazione dal percorso. E la mia diversità è stata sancita dalla scelta di non assaggiare quel vino mattutino, erogato gratuitamente, dall’aroma non proprio accattivante: sono rimasto a bocca asciutta in fiducia e ho apprezzato l’iniziativa pittoresca.


E poi la fatica. Sin dai primi passi, dalle prime salite, la fatica smette di essere un tema di riflessione essendo ineludibile e soprattutto non imprevista. C’è, sta lì, ce l’hai messa tu e ha un compito cruciale, quello di darti quella minima sofferenza che serve a darti il vigore di alzarti ogni santa mattina, mettere lo zaino in spalla e camminare per sei/sette ore: così per un mese, che la pioggia martelli o che il sole arroventi, che si salga o che si scenda. 

 

La fatica evidenzia i nostri difetti e ci consegna a una legge di natura: ogni progresso proviene da un’imperfezione. Senza l’ostacolo non salti

  
La fatica non è affatto gioia, piuttosto è un enzima che catalizza reazioni che magari sarebbero avvenute anche senza aiutino, ma chissà quando. Ci mostra non eroici – a meno che non si tratti di recordman olimpici – ma adeguatamente imperfetti, allineati una volta tanto con la nostra preziosa e trascurata modestia. La fatica evidenzia i nostri difetti, rimarca l’età, apparecchia con cura la tavola a fastidi e doloretti. Ma al contempo ci consegna a una legge di natura: ogni nostro progresso proviene da un’imperfezione. Senza l’ostacolo non salti. Senza la salita non avrai mai confidenza con alcuni muscoli. Senza il sudore non conoscerai il tuo odore.


Molti credono che chi scala le montagne, chi corre le maratone, chi cammina per mille chilometri sotto il sole o sui ghiacci lo faccia per tentare di superare un limite. E’ una lettura sbrigativa, superficiale e di conseguenza errata. Far pace con i propri limiti significa al contrario accettarli. Significa capire, anzi provare sulla propria pelle che il confronto col nostro senso del limite è l’unico modo che abbiamo per vivere civilmente, senza invadere l’altro, senza discriminarlo. 


Ricordiamocelo. Ogni forma di prevaricazione nasce dall’inadeguatezza di fronte a un limite nostro e soltanto nostro. 


Perché un Cammino non è mai un rosario di passi, un’esibizione di fatica o di devozione (più evitabile la seconda). E’ la cena nel postaccio più allegro e scomodo dove la cerveza è buona e il resto chissà. E’ dormire (e resistere) ogni sera in un luogo diverso con imprevisti diversi e svegliarsi fissando la zanzara che ti ha regalato una notte indimenticabile. E’ combattere per arrivare dove non sai di dover arrivare: la geografia in fondo distrae dal vero viaggio in cui gli unici punti cardinali che contano sono quelli del nostro godimento personale. E’ adattarsi e trovare finalmente un senso a un’idea che cambia di continuo: in fondo da bambini giochiamo e sogniamo di essere l’eroe della favola, crescendo ci accontentiamo di non essere il malvagio. 
Felice è il viaggio di chi non vorrebbe essere in altro posto che quello in cui si trova.