Alberto Moravia (a sinistra) e Giacomo Debenedetti (foto Olycom) 

I letterati di oggi non hanno imparato niente da Giacomo Debenedetti

Matteo Marchesini

Lodato con tanta retorica eppure totalmente ignorato negli odierni dipartimenti di studi letterari. E il fatto equivale a un duro giudizio di condanna per questi dipartimenti, i cui gestori ormai non si domandano nemmeno perché studiano ciò che studiano

La poesia egemone del Novecento, quella che per opporsi alle massificate “parole della tribù” ha scelto l’oscurità del simbolismo o ermetismo, è servita da alibi a molti: senza dubbio a certi poeti, che dietro i versi oscuri hanno nascosto la loro inconsistenza; ma anche a parecchi studiosi che hanno trasformato i suoi codici esoterici in un latinorum con cui recuperare un potere clericale quasi perduto nel caos della modernità. Accettando supinamente le chiose degli autori, o aiutandosi con teorie piuttosto generiche, questi studiosi hanno di solito sovrainterpretato una tale poesia, cioè in fondo non ne hanno dato un’interpretazione concreta – cosa del resto assai pericolosa da fare, là dove la lingua è poco chiara. Si è formato così un pubblico di cosiddetti esperti che finge di capire ciò che spesso non capisce affatto, perché non sa più verificare se il re è nudo o vestito. Anche per il coraggio col quale Giacomo Debenedetti si è invece preso il rischio di tentare questa verifica, è oggi più che mai liberatorio leggere le sue lezioni sulla “Poesia italiana del Novecento”, tenute all’Università di Roma tra il 1958 e il ’59, uscite postume nel 1974, e appena ripubblicate dalla nave di Teseo con commenti di Berardinelli e Pasolini.

  

Ci seduce qui la voce di un Debenedetti maturo e conversevole, scrittore disinvoltamente attico rispetto al saggista asiano della sua prima fase. Anziché accettare a scatola chiusa i principi simbolisti, questa voce prova a tradurli nei suoi termini: cioè nei termini di un intellettuale che non sottovaluta la lotta all’alienazione da cui scaturisce l’oscurità, ma che tuttavia continua a credere che anche in poesia, come nel romanzo, soltanto un riconoscibile personaggio-uomo possa permettere di combinare le immagini in modo significativo, ossia di raccoglierle nella figura di un destino.

 

Il presupposto della sua lettura, spiega Berardinelli, “è semplice e un po’ provocatorio: va bene, i poeti hanno deciso a un certo punto di rendere sommamente allusiva e intraducibile la loro lingua, sopprimendo i passaggi logici (…) Ma in questo modo illogico di procedere deve pur esserci una logica” – e una psicologia, una storia, un contesto. Ecco: Debenedetti si avventura a scoprirli, ribadendo caparbiamente che “noi dobbiamo almeno capire perché non c’è nulla da capire”. Ne esce un racconto ricco di suspense, di cui lui diventa il protagonista-narratore: l’esatto opposto di quel che accade nelle pagine dell’altro nostro sommo critico novecentesco, Gianfranco Contini, saturate da un discorso simile a un a parte ermetico nel quale cadono singole osservazioni acutissime, ma mai riconducibili alla fisionomia credibile di un carattere. Non a caso, dunque, il poeta debenedettiano è Saba, cioè colui che nei suoi versi da “drammaturgo” alla Verdi, come Debenedetti nella sua prosa saggistica, trasforma perfino l’astratta idea simbolista in personaggio.

 

Davanti alla mitologia privata del secondo Montale, che solo l’autore può aiutarci a decifrare in qualche nota a margine, il critico ci fa invece avvertire la sua perplessità; e così davanti a quel contrasto ungarettiano tra particolari abbaglianti e indefinitezza dell’insieme, che con uno dei suoi paragoni proustiani collega al “capolavoro sconosciuto” di Balzac. La “non univocità di significati” e le allegorie monche di marca mallarmeana, si chiede insomma Debenedetti, non nasconderanno a volte qualche segreto un po’ troppo banale? Ma negli anni in cui riempie i suoi quaderni, e in cui emerge un’altra poesia realistica che convince più l’ottimismo della sua volontà che non la sua malinconica ragione, i lirici degli anni Trenta si sono già lasciati alle spalle il loro climax orfico: e lo dimostra qui la stupenda analisi di un testo allora recentissimo di Luzi, dove ermetica non è ormai la poesia ma la vita.

 

Mentre cerca di sciogliere gli enigmi con una sottigliezza perfino eccessiva, la voce di Debenedetti appare ansiosa almeno quanto suadente. Esita, trema. Niente è certo, per lui, che con un ininterrotto accavallarsi di ipotetiche smorza anche i giudizi più perentori. Pasolini osserva che questo interprete si pone “il traguardo irraggiungibile di una totalità di lettura senza specializzazioni (…) realizzata attraverso un metodo non metodico”; e conclude che “a causa dell’oggettiva mancanza di un metodo”, tutto il suo “continuo, testardo e geniale ragionare sui testi (…) è pervaso di un invincibile senso di colpa: eppure egli si è sempre rifiutato, con tutto se stesso, di commettere la colpa di adottare un metodo”.

  

Ecco la ragione per cui, sebbene da decenni si usi lodare retoricamente in Debenedetti il maggior critico italiano del XX secolo, i letterati di oggi non sembrano avere imparato niente dalla sua lezione. I libri di cosiddetta teoria della letteratura quasi non lo citano, mentre ingigantiscono l’importanza di Orlando o Moretti, e in genere di tutti gli studiosi di cui si può facilmente utilizzare una cornice metodica, anche se poi non ci si inserisce dentro nessun quadro, ovvero nessuna idea. Debenedetti, in sintesi, si rivela inutile negli odierni dipartimenti di studi letterari; e il fatto equivale a un duro giudizio di condanna per questi dipartimenti, i cui gestori ormai non si domandano nemmeno perché studiano ciò che studiano. Domanda essenziale, dato che quando il collegamento con la vita di chi la legge è reciso, e non ci si assume più un vero rischio empirico d’interpretazione personale, la letteratura si riduce a un comparto della pubblica amministrazione o a una rubrica pubblicitaria. Nel qual caso, meglio occuparsi d’altro.
 

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