Lodato con tanta retorica eppure totalmente ignorato negli odierni dipartimenti di studi letterari. E il fatto equivale a un duro giudizio di condanna per questi dipartimenti, i cui gestori ormai non si domandano nemmeno perché studiano ciò che studiano
La poesia egemone del Novecento, quella che per opporsi alle massificate “parole della tribù” ha scelto l’oscurità del simbolismo o ermetismo, è servita da alibi a molti: senza dubbio a certi poeti, che dietro i versi oscuri hanno nascosto la loro inconsistenza; ma anche a parecchi studiosi che hanno trasformato i suoi codici esoterici in un latinorum con cui recuperare un potere clericale quasi perduto nel caos della modernità. Accettando supinamente le chiose degli autori, o aiutandosi con teorie piuttosto generiche, questi studiosi hanno di solito sovrainterpretato una tale poesia, cioè in fondo non ne hanno dato un’interpretazione concreta – cosa del resto assai pericolosa da fare, là dove la lingua è poco chiara. Si è formato così un pubblico di cosiddetti esperti che finge di capire ciò che spesso non capisce affatto, perché non sa più verificare se il re è nudo o vestito. Anche per il coraggio col quale Giacomo Debenedetti si è invece preso il rischio di tentare questa verifica, è oggi più che mai liberatorio leggere le sue lezioni sulla “Poesia italiana del Novecento”, tenute all’Università di Roma tra il 1958 e il ’59, uscite postume nel 1974, e appena ripubblicate dalla nave di Teseo con commenti di Berardinelli e Pasolini.
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