La compagnia di Maguy Marin mette in scena May B (Ansa)

Il Foglio del weekend

La danza degli spostati. Un festival per celebrare la coreografa Maguy Marin

Marinella Guatterini

“La passione dei possibili”, una rassegna tra Parma e Reggio dedicata alla ribelle artista francese, geniale quanto ruvida. La meraviglia dei corpi imperfetti in una storia di polemiche, di successi e di controversie

Prenderà corpo – ed è il caso di usare subito questa scottante parola, corpo, sempre più rassegnata a rincorrere una fastidiosa perfezione – entro uno spazio immobile e desolato. Il Teatro Regio di Parma è tutto oro e stucchi ma il feroce contrasto con i protagonisti di “May B” (Forse Beckett), in scena il 31 maggio, sarà voluto: imbrattati di farina, sfigurati, gonfiati, impolverati e tragicamente anonimi, sembreranno a qualcuno del pubblico detriti di un ex-manicomio criminale. Eppure proprio queste carcasse umane – giunte a superare le settecentocinquanta repliche in cinque continenti dal 1981, anno d’esordio dello spettacolo – hanno già consegnato alla storia del teatro Maguy Marin, la loro “mamma” settantenne. Ora, dal tempio della lirica parmense, daranno il via a “La passione dei possibili”, un lungo e coerente festival con altri quattro debutti e una nuova creazione: tutto dedicato all’artista francese geniale quanto ruvida, ribelle e che si autodefinisce “fuori moda”. Festival radical chic, oppure old fashion

 

Tutto ciò che di sordido e recalcitrante, di opaco e balbuziente gli abili organizzatori del Reggio Parma Festival e non solo, hanno estratto dal repertorio della Marin e ci consegneranno nella sua ennesima creazione, sembra proprio desunto dai pensieri di Byung-Chul Han, il filosofo sudcoreano e docente a Berlino che da anni sprona la nostra società a non perdere la bellezza. Un valore distante dai lifting estetici diffusi, dalle immagini nitide e levigate di tanta arte asettica, dagli incantesimi senza pensiero che ci eccitano per un secondo con un “wow” e dalla ricerca di un consenso con mille like, raggiungendo in “La salvezza del bello” (figure nottetempo, 2019) l’apice della sua crociata a braccetto di altri filosofi e pensatori ben noti – da Nietzsche a Benjamin, da Gadamer a Barthes. Il testo scorrevole e pungente, una volta digerito, potrebbe inibirci il tocco di uno smartphone, viceversa proveremmo vergogna: la lucentezza dell’aggeggio non ci farebbe incontrare nell’etere anima viva, solo noi stessi. Effetto domino? Di sicuro sarebbe “completamente eliminata l’alterità o la negatività dell’altro e dell’estraneo”, tuona Byung-Chul Han, “condizioni indispensabili al perdurare della bellezza”. Nel 1981, a trentadue anni, quando creò “May B” Maguy (diminutivo di Marguerite) non conosceva tanti filosofi; viaggiava con i testi di Beckett sottobraccio. Tuttavia, grazie al talento, e a un’intelligenza artistica debordante, sapeva benissimo cosa trarre da quei corpi degradati e pesanti come pachidermi: c’era anche di mezzo la sua provenienza “sovversiva” di esule malvoluta e la sua formazione.

I protagonisti di “May B”: imbrattati di farina, sfigurati, gonfiati, a qualcuno sembreranno detriti di un ex manicomio criminale

 

Viso incavato, pallido ma acceso da occhi febbricitanti e inquieti, la piccola e minuta figlia di esuli politici spagnoli fuggiti dal regime di Francisco Franco e insediatisi non senza difficoltà a Tolosa, la sua città natale, dimostrò subito di quale pasta dura fosse fatta. Entrata giovanissima a Mudra, la scuola fondata a Bruxelles da Maurice Béjart, cominciò ad agitarsi, a improvvisare, a creare e ricreare gruppi che duravano lo spazio di poche ore. Incuriosito da quella insospettabile “leonessa”, il coreografo marsigliese pensò di chetarla facendola entrare nel suo leggendario Ballet du XXème Siècle e donandole ruoli di prim’ordine nella “Nona Sinfonia” e nel “Molière Imaginaire”. Quando rispuntò in lei il sacro fuoco della coreografia, il magnanimo maestro la incoraggiò. Lei lo ringraziò per averla salvata, grazie alla danza, da un’esistenza che sarebbe potuta essere misera e grama come quella dei suoi genitori. Lo ammirò pure per aver cancellato tutine e collant dalle sue coreografie, introducendo per “i giovani della mia età capelli lunghi, jeans e magliette in modo che finalmente la scena venisse invasa non da figure immaginarie bensì dagli stessi corpi di strada”, come ricorda ancora.  Poi però tornò a graffiare.

 

“Pubblicitaria” e “falsa” l’ostinata magrezza dei corpi del suo talent-scout e maestro; peggio ancora: la predilezione per danzatori esili, talvolta esilissimi. Così, già a capo, nel 1979, del Ballet Théâtre de l’Arche, Maguy lo rigonfiò di corpi grassi e magri, belli e brutti, capaci di padroneggiare sulla scena i suoi messaggi spesso venati di malinconia, ma anche pronti a far ridere e sorridere per l’ironia sferzante che in seguito sarebbe affiorata in “Babel Babel” (1982), amara parodia di una società confusa, incapace di comunicare dopo il crollo della famosa torre di Babele, eppure eccitata, su di giri. In “May B” vedremo i larvali malcapitati muoversi in gregge, sulle note di una musica bandistica: un’eco lontana che va e viene scandendo i lunghi momenti della desolazione silenziosa, dell’attesa vana, dell’esistenza impotente. Temi succhiati da “Finale di partita” e “Aspettando Godot”, senza commiserazione, anzi con un certo affetto per la cicciona immonda che si gratta ovunque, per la piccolina sbraitante, per lo spilungone allampanato che si masturba e il corpulento più allocchito e imbranato. Maguy sapeva che li avrebbe santificati grazie al gusto ironico per il nonsense di Lucky, Pozzo e Humm, tutti tratti dalle pagine di Samuel ma anche dalle sue parole. Incontrato il celebre scrittore che non vide mai il suo spettacolo, gli chiese di poter far usare la parola ai suoi danzatori nell’ipotetica seconda parte di “May B” ma Beckett ben comprese la forzatura e la convinse a farli semmai svettare sul magma umano indistinto, privo di coscienza e volontà dell’inizio, introducendo nuovi gesti accompagnati da Lieder schubertiani a lui cari. Ben contenta della comune predilezione musicale (Schubert), Maguy eseguì. Laddove il racconto scenico agguanta eticamente un piglio di rivalsa sociale, creò una piccola festa di compleanno; asciugò ulteriormente il linguaggio, già secchissimo, in camminate traballanti o appena percettibili, in piccoli gesti minimi ed empatici, in un immobilismo finalmente carico di dignità e fermezza.

Nel 1981, Maguy (diminutivo di Marguerite) viaggiava con i testi di Beckett sottobraccio, un talento e un’intelligenza artistica debordanti

 

Le polemiche del debutto e le alzate di spalle delle prime recite francesi le fecero un baffo. A metà anni Ottanta Maguy festeggiava la duecentesima recita di “May B” al Piccolo Teatro di Milano. Nel frattempo era diventata “la Pina Bausch francese”, una celebrità. Aveva guadagnato una residenza a Créteil subito diventata centro coreografico nazionale: nella Francia di Jack Lang, il rimpianto ministro alla cultura, voleva dire denaro a profusione e lavoro indefesso. “Hymen”, spettacolo barocco e volutamente volgare già nel titolo (imene); “Cendrillon”, probabilmente la più riuscita “Cenerentola” teatrale creata sino ad ora, ancora con corpi gonfiati e in maschere (le sorellastre, la matrigna), o un po’ sperduti nella loro rosea ingenuità da bambolotti biscuit; “Calambre”, pezzo flamenco, spagnolissimo, ove lei stessa tornava in scena per cantare a squarciagola, non furono immuni da strali. “Dicevano che il mio teatro era grottesco, esagerato, provocatorio”, rammenta oggi la Marin, e aggiunge: “Non credo di aver camuffato la realtà; non ho mai capito perché la bruttezza e l’esagerazione non dovessero danzare… La realtà è imperfetta; bello è un bambino madido di sudore e di sangue che esce dal ventre materno; bella è la Spagna con i suoi riti e la sua violenza”. Strane profezie: Maguy anticipava sempre il filosofo Byung-Chul Han anche quando gli alti e bassi di una creatività spericolata la portarono ora nel purgatorio dei “Sette peccati capitali dei piccoli borghesi” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, pas mal ma troppo caramellosi e debitori alla “Classe morta” di Tadeusz Kantor, ora nell’abisso di “Eh, qu’est ce que ça me fait à moi?” (Eh, a me cosa importa?), omaggio invece davvero deludente alla Rivoluzione francese, nell’anniversario della ricorrenza, e che non depose a suo favore. Eppure quello scivolone capriccioso e troppo istintivo per un’artista che aveva cominciato a studiare Spinoza e a leggere incessantemente era la spia di un malessere, in parte mitigato dall’avere al suo fianco Denis Mariotte, un compositore/compagno (due mariti li aveva già consumati) che non l’avrebbe più lasciata.

 

Stanca di un lavoro diventato “di mercato”, con il suo mordi e fuggi, una serata o due in ogni parte del mondo, anche se felice di essere riuscita a sfamare per i primi dieci anni la sua amata e preziosa compagnia, ormai autosufficiente, Maguy decise di punto in bianco di alzare le tende da Créteil dopo 14 anni e di imboccare un’altra rotta. Per prima cosa buttò alle ortiche i mille costosi e bellissimi costumi di Montserrat Casanova, la sua stilista teatrale prediletta e le scene; poi dimenticò i palcoscenici lussuosi e accoglienti. Aveva sentito parlare di un progetto sul territorio a Rillieux-la-Pape e s’iscrisse. Vinse il bando, non ricordo se come unica candidata, e chiese di poter lavorare con un pubblico, per lo più di immigrati privi di opportunità, come entrare in un teatro. Ligia alle sue convinzioni politiche, l’ex musa di Béjart ricominciò tutto da capo: nuda, cruda, e sempre più anticonformista, anche nell’abbigliamento sciatto e svogliato. Peccato che il degradato suburbio alle porte di Lione fosse una delle periferie più pericolose e malfamate di Francia. Lei stessa ci raccontò che giunta al lurido e diroccato capanno destinatole, gli abitanti le sfasciarono tutto. Lasciò correre sera dopo sera; anzi tra le macerie di quello che avrebbe dovuto essere il suo centro creativo, cominciò ad accogliere chiunque entrasse, a invitare a prove e piccoli banchetti, a conversazioni e a semplici visite. Diede il via anche al lavoro con i bambini e gli adolescenti, e il risultato fu di là da ogni aspettativa. Gli sfasciatori divennero i più rigidi e inflessibili guardiani del “loro” centro, e Maguy una reginetta fra loro.

Successi e controversie: “Description d’un combat” al Festival Bolzano danza fa pretendere il rimborso da parte del pubblico urlante

 

Meno incisivo, sulle prime, quello che l’artista ora definisce sorridendo “il mio minimalismo in ritardo”. Un’immersione nella musica, anche bruitistica, nelle letture poetiche riservate agli interpreti per una spettacolarità didattica, priva di ogni effetto o virtuosismo, tutta volta a far comprendere che con la poesia e l’arte si poteva ancora - siamo solo all’inizio del terzo millennio - vivere. Gli organizzatori della “Passione dei possibili” hanno scelto di affidare almeno uno spicchio di questo periodo cruciale nella vita della loro protagonista alla compagnia emiliana MM di Michele Merola con il beethoveniano “Grosse Fugue” e il più sognante duetto da “Eden”, il paradiso perduto del 1986 già presentato alla consegna del Leone d’oro alla carriera della Biennale Danza (2016). Incongruo in questo nuovo festival? Nient’affatto. Adamo ed Eva in maschere e guaine candide, le chiome rosse al vento, si arrampicano in diagonale sul muro sbrecciato che funge da fondale in cerca dell’ennesima fuga. Nessuno stupore: dopo altri 14 anni, l’inquieta Maguy alzò le tende anche da Rillieux-la-Pape, ma non prima di aver trasformato il suo lurido capannone degradato in un nuovo centro in muratura: ampio, lindo, persino profumato dai fiori di un giardino circostante.

 

Nel cammino che condusse a questa coraggiosa trasformazione, fatta di attese, sudore e sangue per tutti i membri della compagnia, la coreografa riuscì persino a mettere a segno i suoi spettacoli più toccanti. Una teoria di performance totali, scabre, colte ma ipnotiche e misteriose: “Umwelt” (2004), dispositivo di pannelli e specchi che intrappolano nove interpreti in abiti quotidiani, alla ricerca di una meta e forse di un senso da dare alla vita. “Turba” ispirato al “De rerum naturae” di Lucrezio, parlato in diverse lingue, tra cui il polacco (2007). “Description d’un combat” (2009), altra maratona linguistica sull’Iliade. “Salves” (2010) e “Nocturnes” (2012), quest’ultimo inserito come “Umwelt” nella rassegna che sta per cominciare. Tutte conquistarono premi ed encomi, ma non certo ovunque. Il ricordo di “Description d’un combat” al festival Bolzano Danza si tramuta, per chi scrive, in un incubo. Lo spettacolo con tutti i guerrieri del poema omerico stesi a terra su di un manto rosso ma in assetto di guerra, con lucide corazze, elmi e meravigliosi costumi (Montserrat Casanova era rientrata in sede, grazie a “Turba”, rifiorito di vesti ricamate), pretese dopo appena dieci minuti dall’inizio il rimborso del biglietto da parte di un pubblico urlante e riottoso. Nessuno godeva dell’originalissima bellezza di quella “mascherata acustica”, retta da una superiore sensibilità coreografica, da una sonorità spesso bisbigliata e biascicata ma anche da un ritmo capace di offrire una immaginifica rinascita ai morti omerici. In “Salves” e “Nocturnes”, Maguy abbandonava la parola, o meglio la rendeva eco di un passato che non passa e forse deve ancora arrivare, e si affidava a immagini frammentarie e sconnesse, a corse e fughe, a qualche danza.

Le polemiche e le alzate di spalle al debutto le fecero un baffo. Poco tempo dopo sarebbe diventata “la Pina Bausch francese”

 

Nella prima pièce tutto si rompe, cade, e sette ballerini si affrettano a recuperare i cocci delle macerie, come se si volesse mettere insieme i pezzi della storia dell’uomo. Nel parlato di film americani, spagnoli, italiani, rimbalzano voci famose; ecco la sottile e meravigliosa ruggine delle corde vocali di Marcello Mastroianni… Si spara a salve, si fugge per salvarsi, ma ci sarà un domani? “Nocturnes”, per sei danzatori, riutilizza con i suoi tableaux vivants, il dialogo tra luce e buio di “Salves” e cuce nuovi lacerti di storia e ricordi. E’ un “notturno”, un successivo prosciugamento senza scampo, che lancia le sue rovine – sassi catapultati a ripetizione in uno spazio ferrigno – verso i sogni di una danzatrice. La scopriamo dormiente, con la bocca torta e spalancata solo alla fine della pièce. Applausi scroscianti alla Biennale de la Danse de Lyon: “Nocturnes” della sessantenne Marin era lo spettacolo più innovativo della kermesse… Intanto la nomade perenne progettava già un’altra fuga, anzi due. Tornata a Tolosa per qualche tempo si stabilì a Sainte-Foy-lès-Lyon, in un centro chiamato RamDam come un suo spettacolo del 1997. Qui nacque “Singspiele” di e con David Mambouch, drammaturgo e sceneggiatore: negli ultimi anni ha seguito il lavoro della Marin e sarà presente nel lungo festival che concentrerà i suoi appuntamenti in autunno con filmati, incontri e una nuova produzione. Implacabile, Maguy anticipa che non abbasserà la voce sulle ingiustizie sociali, sulle guerre inopportune, sulle abissali disparità tra ricchi e poveri. “Lo faccio da trent’anni, e non è cambiato nulla”, asserisce, ma essendo un’artista eviterà la didascalia questa volta accompagnandosi a Bertolt Brecht. Meglio così. L’ultimo spettacolo, per altro sorprendente, tratto dal suo prediletto Beckett fu “Worstward Ho” (2009), un corpo invisibile perché avvolto in una coperta, immobile a terra per quasi un’ora e solo raramente ansimante. Se i reietti di “May B” con i loro piedi nudi strascicati a terra potrebbero apparire ancora indigesti, l’ultimo rantolo del corpo beckettiano rischierebbe di nuovo la restituzione dei biglietti.

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