Foto di Jong Marshes, via Unsplash 

La recensione

"La cura dell'acqua": tre donne recluse e la sensazione che qualcosa di terribile stia per succedere

Valentina Berengo

Dal romanzo di Sophie Mackintosh si viene risucchiati. Una distopia sulla mortificazione del corpo, grandiosa nel creare un senso di spaesamento controllato nei lettori

Ci dev’essere, nella mortificazione del corpo, qualcosa di misteriosamente affascinante, oltre a qualcosa di angosciante e respingente, che fa sì che La cura dell’acqua di Sophie Mackintosh (Einaudi) sia un romanzo da cui si viene risucchiati. 

La sensazione, che coinvolge testa e viscere, è quella di essere in attesa che qualcosa di sublime e di terribile si stia per compiere, come in Melancholia di Lars Von Trier in cui la terra sta per collidere contro un pianeta e le ultime ore dei protagonisti mescolano i nervosismi della quotidianità con quelli della fine imminente e per paradosso quasi dimenticata.

Sophie Mackintosh dal canto suo – con impressa nella mente la lezione di Atwood – immagina la vita reclusa di tre giovani donne, Sky, Lia e Grace, messe al riparo dalla vita “di fuori” da Mamma e da King, il padre, attraverso il confinamento in un luogo bordato dal mare e dalla foresta e soprattutto attraverso una serie di pratiche purificatrici volte a immunizzare le ragazze dal provare sentimenti, soprattutto nei confronti degli uomini. Come fosse un’equazione: “I sentimenti forti ti indeboliscono, ti aprono il corpo come una ferita. Per tenerli a bada ci vogliono vigilanza e terapie regolari”.

La cura dell’acqua consiste nel bere bicchieri su bicchieri di acqua salata e vomitarli fuori, nel riempirsi la bocca di mussola e tossirci i sentimenti, nell’abbandonarsi all’altro che ti spinge la testa sotto fino a perdere i sensi, nell’indossare un sacco di iuta e svenire di caldo, nell’uccidere con freddezza esseri viventi, nel bruciarsi le mani con una candela accesa, nel marchiarsi la pelle con una graffetta arroventata. Farsi del male è ossimoricamente accettato, anzi necessario, benedetto perfino, in nome di un ideale di atarassia che dovrebbe farsi sinonimo di salvezza. Beata quella sorella che subisce il martirio in nome dell’altra. Anche perché nell’isola Mamma, King e le ragazze accudiscono altre donne perdute, che approdano lì contagiate nel corpo e nell’anima, ma qualcuna invero non sopporta la cura dell’acqua e muore. Sono donne insalvabili.

Solo in questo Mackintosh pecca: nel reiterare una visione distopica del mondo secondo cui sono le donne a dover essere messe al riparo, e per questo recluse, torturate e convinte che la tortura le salvi e le redima. Non c’è originalità in questa distopia, nemmeno in quella del bambino portato in grembo come frutto dell’errore, o della necessità di salvarci da noi stessi purgando il corpo. 

Eppure il narrare dell’autrice produce una specie di incantamento, come fosse il lettore a fare la cura dell’acqua. Questa è la grandezza di Mackintosh: creare un senso di spaesamento controllato, inducendo il cortocircuito dell’amore come malattia e della resistenza alla violenza autoindotta come salvezza. Cosa succede, quindi, quando nell’isola naufragano due uomini e un bambino, cioè dei maschi, proprio quando King viene dato per morto? Mackintosh a quel punto fa sgorgare, come gocce di sangue da una delle ferite di cui racconta, l’umanità incontrollabile delle protagoniste che, in un caleidoscopio di reazioni avverse alla regola, sentono di trovarsi sul confine tra due mondi.

Quello oltre il mare e la foresta e quello dell’isola, quello del maschile e quello del femminile, quello della violenza e quello dell’amore sul corpo, quello della vita e quello della morte, proprio nell’atto di nascere e di morire. Quello della regola contro quello dell’inconsulta reazione dell’istinto quando avviene il contatto con l’altro: “L’unica cosa che riesco a pensare” dice Grace dopo essere stata con Llew “è come […] faceva a sapere che mi sentivo così, come faceva a sapere di dovermi sostenere, il mio corpo beccheggiante i miei occhi spalancati?”.

Allora forse non c’è distanza tra un mondo e l’altro, forse tutto si tiene e tutto si distrugge, come nella notte dei protagonisti di Melancholia, prima dell’impatto.

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