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La vita agra della barzelletta

Alberto Mattioli

Impazza il politicamente corretto ma almeno l’Italia resta un’oasi di umorismo. Chiacchiere con due professionisti della risata

Ci sono un inglese, un francese, un tedesco e un italiano… Alt, questa barzelletta non s’ha da raccontare. Eh, già. Visto che di solito l’italiano fa fare una figura da scemi agli altri, si offenderebbero tutti, non è giusto, non è elegante, non è corretto. E non parliamo di altre e più delicate suscettibilità, i gusti sessuali, il colore della pelle, le caratteristiche fisiche. Nell’èra del Grande Lamento, si moltiplicano gli argomenti che è meglio non toccare se non con tutte le cautele dell’umoristicamente corretto. Gli indignati speciali sono sempre lì pronti, con il ditino alzato, a stigmatizzare e a protestare e infine a mettere alla gogna chiunque dica tutto ciò che può risultare anche soltanto lontanamente offensivo per chiunque altro. Una sensibilità esasperata che diventa esasperante quando si tratta di risate: dall’umorismo “alto” alla comicità greve, far ridere è come danzare sulle uova della suscettibilità contemporanea. Non parliamo poi dell’umorismo più salace e popolare, plebeo e fescennino, insomma della barzelletta, che pure ha una sua gloriosa tradizione. Da piccini ma già saldamente perfidi, e soprattutto insensibili alle altrui sensibilità, ci siamo tutti divertiti con il dissidente russo Andrei Koimasky o il pilota giapponese Chimafuso Lamoto. E via con battute e battutacce su diversamente alti o variamente colorati (abbronzati, avrebbe detto Berlusconi) che oggi provocherebbero irritazioni generalizzate, levate di scudi, esposti alla magistratura, editoriali impeccabilmente conformisti. Già nel 2015, e proprio sul Foglio, Jerry Seinfeld dell’omonima sit-com lamentava come il politicamente corretto stesse distruggendo il meglio dell’umorismo americano. E puntualmente qualche settimana fa è arrivata la notizia che Twitch, la piattaforma di proprietà di Amazon, ha censurato i suoi monologhi per “transfobia”, insomma ha applicato anche alle battute la cancel culture. Una risata vi seppellirà, come si diceva quando ancora si pensava che la satira potesse cambiare il mondo? Macché: adesso è il mondo che seppellisce la risata.

   

E tuttavia, sorpresa, in Italia la dittatura della correttezza non ha ancora vinto. E’ forse l’ennesimo merito che sarà riconosciuto (postumo, però) a Silvio Berlusconi, già, sempre lui, per il quale le storielle divertenti sono sempre state la prosecuzione della politica con altri mezzi; e poi, certo, meglio se sporche e meglio ancora se scorrette. Sarà magari l’antica tradizione sfottente e ribalda, greve e plebea della risata liberatoria che ha sempre imperversato nel nostro disgraziato ma divertente paese (in fin dei conti, le barzellette sono il tipico sfogo dei popoli sottomessi, e magari le prime freddure sul francese, il tedesco e lo spagnolo risalgono al continuo turn over di padroni stranieri nella Penisola, e senza che mai, per secolo, si riuscisse a trasformare questo via vai in un vai via), fatto sta che lo Zeitgeist globale non ha ancora castrato la risata all’italiana. Lo insegnava già quel GG (Gran Genio) di GG (Giorgio Gaber), rivendicando “la libertà di ridere / Di tutto ciò che vuoi / Non si può non ridere / In mezzo a tutti questi guai”. E del resto il dilagante successo di Checco Zalone, anche con interviste surreali e spassose sui giornali più prestigiosi e paludati, è la dimostrazione che la battuta “cattiva” resiste e lotta insieme a noi.

   

Una risata vi seppellirà, si diceva quando si pensava che la satira potesse cambiare il mondo. Adesso è il mondo che seppellisce la risata. L’antica tradizione sfottente e ribalda, greve e plebea della risata liberatoria: le barzellette sono il tipico sfogo dei popoli sottomessi

 

Lo confermano da sponde distanti, una “alta”, diciamo così, e l’altra più pop, due umoristi che non potrebbero essere più diversi ma che in comune hanno l’allergia alla battuta comme il faut, che poi significa che non fa ridere. Prendete il battutista numero uno, un altro GG, Gene Gnocchi, in effetti un umorista più che un comico e men che meno un barzellettiere (“no, io le barzellette proprio non so raccontarle, ma invidio molto chi ne è capace”), che di politicamente corretto non vuole nemmeno sentir parlare: “La comicità parte dalla scorrettezza, deve essere scorretta. La risata nasce appunto dallo iato fra ciò che ti aspetti e ciò che effettivamente senti o vedi. Quanto agli argomenti, non ce n’è uno di cui non si possa ridere. Prendete il tabù contemporaneo per eccellenza, la morte. Nel mio ultimo spettacolo, racconto di un tizio che deve andare a un funerale che però viene continuamente rimandato, la prima volta ‘perché non poteva lui’, la seconda perché ‘è mercoledì e ci sono le coppe’, la terza perché ‘il custode deve fare l’inventario’. Come vede, si può scherzare su tutto”. Proprio su tutto? Anche, poniamo, sulle caratteristiche fisiche? “Certo. Sempre nello stesso spettacolo, racconto dell’ex ministro Renato Brunetta che ‘tutti i giorni tenta di suicidarsi lanciandosi dal tavolo della cucina’. E’ chiaro che la battuta non può diventare dileggio oppure offesa. Ma se dovessi evitare degli argomenti per paura che qualcuno se la possa prendere, allora non potrei davvero più fare il mio lavoro”. Eppure, l’offensiva della correttezza prosegue inarrestabile, specie nel mondo anglosassone, per tacere di Hollywood, ormai ribattezzata HollyWoke. “Però ho sentito di recente un monologo di Ricky Gervais che affrontava appunto questo argomento arrivando più o meno alle stesse conclusioni mie” (a Gervais, fra parentesi, dovremmo tutti fare un monumento – che peraltro sarebbe subito demolito dai talebani della cancellazione, come quelli ai generali sudisti in America o ai colonizzatori in Gran Bretagna – per una frase che spiega il nostro mondo meglio di un saggio di mille pagine: “Solo perché ti sei offeso, non significa che hai ragione”). Insomma, Gnocchi non ci sta né a censurarsi né ad autocensurarsi: “Alla fine, scatta un enorme chissenefrega. Se ti offendi, sono c***i tuoi”. Giusto per non mandarla a dire. 

  

Gene Gnocchi: “No al dileggio, ma se evitassi argomenti per paura che qualcuno se la possa prendere, non potrei più fare il mio lavoro”

 

E’ anche vero però che la barzelletta in Italia ha un glorioso passato ma un presente più incerto. A parte la questione del pol. (Pot) corr., sembra un po’ demodé, fa varietà in bianco e nero nel migliore dei casi o sagra patronale nei peggiori, anche se poi rivedendo i Renato Rascel e i Walter Chiari e i Gino Bramieri mitici si ride ancora e sempre. Sono meravigliosi teatrini dell’assurdo in due battute, per tacere di Totò, peraltro con il senno di poi anche colpevole di blackface. E tuttavia alla fine la barzelletta (r)esiste ancora, e anzi la dice lunga su come siano cambiati i percorsi dell’entertainment.

 

Prendete il nostro comico numero due, Uccio De Santis, pugliese di Bitetto, lanciato nel 1998 da “La sai l’ultima?”, programma appunto barzellettante di Canale 5 condotto da Gerry Scotti, poi anche al cinema, guarda caso, con “Le barzellette” di Carlo Vanzina (2004). De Santis è stato rivelato dalla televisione ma è la dimostrazione che per diventare popolari non è indispensabile tornarci. Infatti, De Santis ci va poco e invece lavora molto live nei teatri e soprattutto sui social. I numeri della sua sitcom “Mudù” stupiscono: due milioni di follower su Facebook, 730 mila su YouTube, 270 mila su Instagram. Racconta barzellette recitandole in video, veri e propri filmini molto curati. Per esempio, quello con Uccio in bilico sullo strapiombo di una montagna (“Girato a Roccaraso, tutto vero, avevo una gran paura”, racconta) che urla: “Aiuto, c’è qualcuno?”. Da fuori si sente una voce: “Sono Dio, lasciati cadere, gli angeli ti sosterranno”. E lui: “C’è qualcun altro?”. Beninteso, anche De Santis non vuole essere definito un barzellettista, “nel mio spettacolo di due ore di barzellette ne dico al massimo due o tre, per il resto monologo e gioco con il pubblico, anzi la seconda parte della serata ogni volta è nuova, la invento basandomi sugli scambi con gli spettatori nella prima. Dopo dieci anni nei villaggi turistici sono abituato a improvvisare e a ribattere, e insomma la barzelletta non è la mia arma vincente. Ma se è raccontata bene, funziona ancora”.

 

Uccio De Santis: “L’unica categoria che non protesta sono i Carabinieri. Non mi è mai capitato che se la siano presa, o che l’abbiano fatto sapere”

 

Qui si ripropone ovviamente il tema di ciò che si può o non si può dire, delle materie su cui è vietato scherzare. “In generale, non ce ne sono. Personalmente, il limite che mi pongo è quello della volgarità. Io la detesto e così magari risulto fin troppo elegante, considerando cosa passa in televisione, anche in prima serata su Rai 1, volgarità che io non mi permetterei mai, anche se forse funzionano, chissà… Di politica non parlo perché mi interessa poco, preferisco toccare i temi della vita quotidiana”. Ma insomma, qualcuno che se la prende ci sarà… “Capita che ogni tanto ci sia chi lascia un commento sotto i video di YouTube. Mi è capitato con i gay perché aprivo un monologo salutando così: ‘Un applauso agli uomini, un applauso alle donne e un applauso a tutti gli altri’. E poi, curiosamente, ogni tanto protestano i testimoni di Geova”. Questa poi, e perché? “Per una storiella su di loro. Entrano nel salotto di qualcuno da convertire e iniziano così: questa casa è benedetta dal Signore? Risposta: no, in compenso è pignorata dalla San Paolo. Ma a me va bene, ci sta che ci sia chi protesta, tanto più che lo fa quasi sempre in maniera civile. Però sono convinto che non esistano argomenti sui quali non si possa fare dello spirito. In America, è vero, è diverso. Ho una figlia che studia a Los Angeles e mi racconta di censure e autocensure che qui sarebbero impensabili. Almeno finora”. E le famigerate barzellette sporche, quelle che nei tinelli borghesi, fra il buffet e il controbuffet, si raccontavano premettendo che erano appunto sporche, mentre era di bon ton da parte delle signore con pretese di eleganza fingersi scandalizzate, ma ovviamente dopo averle ascoltate? “Quelle piacciono ancora. Beninteso se non sono banali  e non sono volgari. Insomma, ci dev’essere una certa eleganza anche nella barzelletta sporca. La tolleranza oggi è maggiore che un tempo, perché in effetti è cambiato tutto, il linguaggio è molto più disinvolto e anche sui media si sentono cose che fino a qualche anno fa sarebbero state impossibili. Al massimo succede che ridano e poi ti dicano: ah, questa te la potevi evitare”.
Resta solo da capire se, nell’èra dell’indignazione collettiva, ci sia qualche categoria che non si offende, non protesta, non chiede censure né abiure. De Santis, c’è? “Sì: i carabinieri. Non mi è mai capitato che se la siano presa, o almeno che l’abbiano fatto sapere. Nemmeno quando racconto quella dei semini delle mele”. Racconti. “C’è un fruttivendolo che con pazienza apre le mele, toglie a uno a uno i semini, li mette accuratamente da parte e butta il frutto. Arriva un carabiniere che guarda, si incuriosisce e ovviamente chiede: che stai facendo? E il fruttivendolo: sto prendendo i semini. Il carabiniere: e le mele? Il fruttivendolo: le mele le butto, non mi servono, sono i semini che hanno valore. Quale valore? Come, non lo sai? Un semino di mela fa crescere l’intelligenza. Più ne mangi, e più diventi intelligente. Il carabiniere è incuriosito: quanto costa un semino? Il fruttivendolo: un semino, cinque euro. Il carabiniere tira fuori quindici euro, ne compra tre e diligentemente li mangia. Poi ci pensa: scusa, con quindici euro mi hai dato tre semini, ma con gli stessi soldi avrei potuto comprare molte mele e mangiare moltissimi semini. E il fruttivendolo: hai visto che sei già diventato più intelligente?”.  Benedetta l’Arma, insomma. E benedetti i violisti, cioè i musicisti che suonano la viola, che nel mondo della musica “classica” ricoprono incolpevoli lo stesso ruolo dei carabinieri nelle barzellette italiane e dei belgi in quelle francesi. Forse perché sono abituati a sentirle, le barzellette sui violisti te le raccontano per primi proprio loro. Sentita da Danilo Rossi, prima viola della Scala: un violinista e un violista cadono dal tetto. Chi si spiaccica per primo al suolo? Il violinista! E perché? Perché il violista ha sbagliato strada…
Insomma, in attesa che il sindacato dei violisti chieda un atto di contrizione in ginocchio sui ceci, qualche barzelletta è ancora possibile raccontarla. L’impressione è che in Italia esista ancora una relativa libertà di risata. E sarebbe bene preservarla, perché ne va della libertà tout court. Anche perché non sono solo barzellette: “Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire”. Firmato Giacomo Leopardi (non proprio uno di noialtri buontemponi, ma insomma…). A proposito, la sapete quella sui gobbi?

Alberto Mattioli

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