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Una famiglia rissosa e il giusto numero di pagine, doni di un buon romanziere. Il nuovo libro di Marco Archetti

Mariarosa Mancuso

In “La luce naturale” (appena uscito per Mondadori) lo scrittore conduce la sua storia con bella sicurezza e con giri di frase felici per raccontare i drammi

Finalmente un romanzo. Debitamente munito di famiglia infelice. I felici esistono, sicuro, lo ricorda a noi lettori un titolo che Yasmina Reza ha rubato con destrezza a Jorge Luis Borges: “Felici i felici”. Lasciano però a un romanziere poco margine di manovra. 

 

Meglio una famiglia infelice e rissosa. I primi insulti sono lanciati contro la porta di un bagno che non si apre, su un treno veloce che vanta tecnologie all’avanguardia. O addirittura una famiglia infelice e rissosa di provincia, terra d’elezione per uno scrittore bravo come Marco Archetti. “L’aristocrazia trevigiana del pollame, in pantaloni salmone e mocassini da barca, si sta schierando per l’apericena”,  scrive in La luce naturale, appena uscito da Mondadori.

 

I casi della vita sono un altro prezioso attrezzo nella cassetta del romanziere. Qui capita che il treno con la porta ribelle si trovi a viaggiare nella direzione sbagliata. A bordo, molto più che contrariato, il quarantenne Flavio. Salito e sistemato in direzione Torino, riceve dalla sorella Tiziana la notizia che la madre ha pochi giorni di vita. Le due donne si trovano un albergo di Eraclea, amena località affacciata sul golfo di Venezia, dove l’anziana Elvira avrebbe dovuto riposarsi.

 

Il figlio Flavio aveva i suoi impegni da attore senza fortuna – ma si sa che la grande occasione è sempre la prossima. Marco Archetti ha lavorato abbastanza in teatro – ora è consulente artistico del Centro Teatrale Bresciano – per conoscere i vizi, le illusioni, le porte in faccia, le (più rare) insperate fortune che toccano agli aspiranti, ai famosi e a quelli che stanno a metà.

 

Flavio aveva giusto un’occasione tra le mani, quando arriva la telefonata. Dalla sorella Tiziana che prendeva le Barbie e se le picchiava sulla fronte, una due e tante volte. Poi si metteva a piangere, ed era il fratello a prendersi la colpa (la perfidia infantile è sottovalutata). Poi Flavio si è lanciato nel turbine dell’arte e della mondanità – così lascia credere – e Tiziana “ha avuto solo le pareti di casa, un marito-tappezzeria, un lavello di tristezza”.

 

Diceva William Hazlitt, qualche secolo fa: “Il testamento è l’ultima occasione che gli umani hanno per essere perfidi, e di solito ne fanno buon uso”. Qui non c’è un testamento, e del resto la moribonda Elvira non è ancora morta. Mentre il proprietario dell’albergo si informa, neanche troppo discreto, sui giorni che mancherebbero al trapasso – la clientela non vuole vedere cose brutte quando è in vacanza – i tre fratelli hanno abbastanza rancori arretrati per poter fare da soli.

 

Oltre a Flavio e a Tiziana c’è Gabriele, che nella vita non sembra aver combinato altro che amori e affari, sbagliati. Per una volta fermo e deciso, ha stabilito che il denaro sarà divisi in maniera disuguale, a suo favore. Tiziana annuncia che dai conti materni mancano un bel po’ di soldi. Tra occhi neri, ansie, segreti e alleanze, “il catapecchione di Feltre”, Marco Archetti conduce la sua storia con bella sicurezza. Lo fa senza mai distrarsi, in un numero di pagine adeguato. Altro dono che il romanziere fa ai lettori, inutile tenerli prigionieri quando la storia non avanza. Sempre, ma proprio sempre, ha giri di frase felici per raccontare i drammi. “Il lutto più tremendo è offrire la propria vita a chi non la vuole”. Oppure “negli avverbi inutili si nasconde l’infelicità degli uomini”. Ce l’ha con i “francamente” troppe volte ripetuti da un personaggio per mascherare l’imbarazzo. Ma vale anche per i romanzieri poco esperti del mestiere e convinti – chissà per quali traumi, maestre elementari, scuole di scrittura? – che l’avverbio nobiliti la pagina.  

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