FACCE DISPARI

Ron: “La musica deve tornare a fare grandi sogni”

Francesco Palmieri

Fu l'uomo in più per Dalla e De Gregori nel tour Banana Republic, "Ero così felice che non mi ponevo il problema di diventare famoso". Poi i Sanremo, i dischi, il cinema e il teatro, i vini. Ha cantato quasi con tutti e quasi tutti hanno cantato i suoi brani. "Se ci credi, le magie arrivano"

Chissà se Rosalino Cellamare, in arte Ron, avrebbe immaginato di cantare ancora con successo “nell’osteria del futuro” per “i ragazzi italiani”, che ormai non più ragazzi hanno continuato ad ascoltarlo decennio su decennio fino a benedirgli una carriera di oltre mezzo secolo. Protagonista dispari della musica italiana, fu l’uomo in più per Dalla e De Gregori nel tour Banana Republic; fu la prima delle tre chitarre acustiche che sempre con De Gregori, e con Pino Daniele, aprivano la tournée del 2002 sulle note di “Una città per cantare”; è stato attore e interprete di se stesso al cinema e a teatro; ha prodotto vini; ha esordito al Festival di Sanremo a 16 anni con Nada e lo ha vinto con Tosca (“Vorrei incontrarti fra cent’anni”) quando ne aveva 43; ha scritto senza che tutti lo ricordino il testo di “Attenti al lupo” e la musica di “Piazza Grande”, sgorgata da un arpeggio di chitarra in una sonnacchiosa traversata marittima; ha cantato quasi con tutti e quasi tutti hanno cantato i suoi brani. Fra “grandi strade piene e vecchi alberghi trasformati” si è mantenuto però fedele a Garlasco in Lomellina, dove è cresciuto e vive e si è ispirato per la canzone “Sono un figlio”, cui s’intitolano il suo ultimo album e il tour teatrale partito l’8 marzo a Senigallia, tappa conclusiva a Monopoli il 6 maggio passando per Roma il 30 di questo mese.

   

“Sono un figlio” rievoca un’epoca con “niente social, monopattini o telefono” ed è un omaggio al suo papà Savino, commerciante d’olio originario della Puglia. “Questo tempo”, lei canta, “io lo vivo per la forza di mio padre”.

A Garlasco il telefono lo possedeva solo il dottore. I miei, quando partirono per qualche giorno di vacanza, gli chiesero il numero perché si preoccupavano di lasciare i figli adolescenti a casa. Era un’epoca più difficile, se cadeva la neve per mio padre diventava ardua impresa girare tra le cascine con la moto a vendere l’olio.

   

La rimpiange un po’?

Per certi aspetti. S’è perso per esempio il fascino di scrivere una lettera, pensarla, ripensarla, aspettare a spedirla. Credo che il miracolo della scrittura si realizzi nel rispetto delle parole che non si danno subito se sono importanti. Per altri aspetti, il presente ci regala cose molto belle: non solo è più semplice prenotare un albergo, ma siamo più facilitati a risvegliare i nostri sogni.

 

Ci riusciamo?

Non sempre. Anzi, temo che ci stiamo abituando ad accontentarci. Prenda l’ultimo Festival di Sanremo: ho ascoltato artisti di grande livello ma con canzoni meno importanti degli esecutori, come se le aspirazioni si fossero abbassate. È una tendenza che noto anche in altre espressioni artistiche, dal teatro alla danza. Alla fine si è quasi costretti a dire che qualcosa è bello anche se non è all’altezza.

  

Da che dipende?

Credo che anche la pandemia ci abbia tagliato un po’ le gambe. Il nostro mondo non è diventato migliore con la sofferenza, piuttosto ha subìto un ripiegamento. Dobbiamo riprendere a pensare in grande, a credere nei sogni e a dire: basta, non mi accontento più. Se scrivi una canzone, sforzati di immaginarla più bella che puoi. Se ci credi, le magie arrivano.

 

Ne ricorda qualcuna?

Lucio Dalla che mi telefona da Bologna: “Ho appena scritto un testo bellissimo”. E io: “Ho messo giù una musica”. M’invita ad andare da lui dicendo: “Vediamo se s’incastrano”. E nacque “Cosa sarà”, anche forzando un po’ i versi secondo la sua esortazione a non restare schiavi delle metriche.

 

Viene prima la musica o il testo?

Per me e per Lucio, la musica poi le parole. Per De Gregori il contrario. All’inizio pensavo di non saper comporre ed ero anche convinto di non saper cantare. Sentivo la mia voce e la detestavo. Poi è venuto fuori tutto il mondo musicale di cui m’ero riempito da ragazzo: cominciai a suonare la chitarra emulando James Taylor e il pianoforte per Elton John. Scrissi “Al centro della musica” ispirato da un disco di Diana Ross. È con questo brano che ora sto aprendo i concerti del tour.

  

 

Da Taylor ha mutuato il fingerpicking. Lei ama suonare senza plettro.

Non solo gli arpeggi, anche la ritmica. Ascoltando Neil Young scoprii il suo modo di picchiare gli accordi a mano nuda.

 

Quale chitarra preferisce?

Amando suonare dal vivo, mi sono convertito alla Cole Clark: attualmente nessuna è comparabile.

  

I chitarristi ricorderanno sempre l’Ovation con cui accompagnava sul palco Banana Republic: 1979, un anno dopo l’uccisione di Moro. Riempiste gli stadi al termine di un decennio in cui per tenere un concerto si rischiava il processo politico.

Un momentaccio. Vivevamo dentro una stanza buia. Ci fu chi, come Morandi, smise di cantare. Io facevo arrangiamenti per i colleghi. Il tour di Banana Republic rappresentò il ritorno del colore, l’uscita dalle tenebre.

 

Il suo brano fu “Una città per cantare”, già eseguito da Jackson Browne. Basta una chitarra e funziona.

Negli anni Settanta e Ottanta, bastava una chitarra o un piano. Io atterrai su un terreno straordinario, di un’erba speciale, tra Dalla e De Gregori. Ero così felice di fare il musicista che non mi ponevo il problema di diventare famoso.

 

Cosa ascolta oltre alla musica leggera?

Morricone. Lo paragono a Mahler per la ricerca sull’armonia. Mi commuove “Mission”, per non parlare di “C’era una volta in America” in cui le musiche si fondono nel più bel film della storia. L’avrò visto venti volte.

 

Un piacere personale?

Cercare sulla tastiera una sonorità che mi faccia star bene. Che è un po’ come vedere la scena di un film.