Due romanzi, cornici floreali per personaggi da fiaba nera: la razionalità convive con una sensualità accesa e la freddezza si mescola all'ossessione. Un macabro gioco di burattini, un'oppressione che non conosce vie di fuga
È così raro, sfogliando un libro pubblicato oggi da un editore italiano, trovare quarte e risvolti di copertina scritti bene – cioè immuni dalla pomposa genericità pubblicitaria, o anche solo senza errori – che quando succede decido subito di dare fiducia all’autore anche se non ne so niente. Mi è appena capitato con due romanzi di Marise Ferro, La violenza (1967) e La ragazza in giardino (1976), riediti da Elliot. Letti i risvolti, mi restava però un’altra diffidenza: il ripescaggio di questa scrittrice, mi chiedevo, non sarà per caso riconducibile a quell’industria delle Voci Femminili Dimenticate, che per cavalcare lo spirito del tempo non si fa scrupolo di esaltare indistintamente opere di qualità troppo diversa? Ma poi le introduzioni di Francesca Sensini, con la loro intelligente discrezione, mi hanno convinto a passare dal paratesto al testo. La Ferro, moglie di due letterati ingombranti come Piovene e Bo, è stata una notevole traduttrice (di Balzac, Proust, Simenon, Mauriac…), e dal mestiere ha imparato molto. Il suo modello sembra infatti proprio quel romanzo socio-psicologico francese che dopo avere regnato sull’800 si è dignitosamente estenuato nel XX secolo. Eppure la cruda “razionalità” sottolineata dalla Sensini, razionalità che in lei convive con una sensualità accesa, evoca anche l’età dei lumi – le sue peripezie piatte e perverse, tutte lucide e in luce.
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