David McNew / Getty Images

Il grande viaggio moderno

On the road con la ricarica. La nuova epica dell'auto elettrica

Marco Bardazzi

Da Washington a Tocqueville, da Steinbeck a Kerouac: un genere antichissimo conosce una nuova vita con l'odissea in cerca delle colonnine. Resta da vedere se la nuova letteratura americana attirerà le giovani generazioni

C’è un nuovo genere letterario e giornalistico in America. È la versione moderna del “grande viaggio”, l’avventura alla scoperta del paese che ha accompagnato prima l’epoca degli esploratori e dei pionieri, e poi quella di ogni generazione che voleva avventurarsi alla ricerca dello spirito americano. Nella sua ultima variante, il viaggio è diventato una specie di odissea con l’auto elettrica, vagando di stato in stato in cerca delle colonnine della ricarica. Chissà come sarebbero state le avventure di Jack Kerouac se avesse attraversato l’America non con una spaziosa berlina Hudson Commodore del 1949, ma con un modello attuale alimentato a batterie. Sulla strada sarebbe stato un romanzo molto diverso, probabilmente pieno di soste e di angosce per la ricarica come lo sono certi reportage di viaggio che pubblicano i media americani. Joann Muller di Axios, per esempio, ha raccontato un viaggio di famiglia dal Michigan alla Florida (2.400 chilometri) su una Kia EV6 elettrica con lo stesso livello di pathos e curiosità con cui un tempo si sarebbe narrata la ricerca del mitico passaggio navale a Nord Ovest.

 

È molto probabile che il senso di novità e precarietà che oggi sembra accompagnare i racconti di viaggio alimentati a batterie scompaia presto, quando l’auto elettrica verrà percepita dall’americano medio come una nuova normalità. Un processo che probabilmente avverrà più in fretta che in Europa, vista la rapida crescita dell’infrastruttura della ricarica. Accompagnata dal cambio di passo che stanno compiendo le case automobilistiche e dal proliferare in tutto il paese di “gigafactory” per la produzione di batterie – stimolate dagli investimenti federali dell’amministrazione Biden – che stanno creando, tra le altre cose, migliaia di nuovi posti di lavoro in luoghi un tempo dominati dall’auto con motore a combustione interna, come Detroit, l’Ohio o la North Carolina. Si entrerà così in una nuova stagione del “grande viaggio” che ha già vissuto, in passato, l’èra del cavallo, della canoa, del treno, della berlina e del Suv. L’aereo non fa parte di questa mistica da esploratori, è considerato una scorciatoia per saltare da un punto all’altro di un paese sterminato senza perdere troppo tempo, mentre le navette spaziali di cui sono innamorati Elon Musk o Jeff Bezos sono figlie ed eredi dell’epopea della scoperta di nuove frontiere.

 

Resta da vedere se il viaggio sostenibile ed ecologico attirerà ancora generazioni che hanno a disposizione la possibilità di vedere tutto senza spostarsi da casa, con Google Earth o Street View o sparandosi una serie di documentari su Netflix o sul canale della National Geographic. Sarebbe una novità storica per un popolo, quello americano, che gira poco il mondo anche perché ha così tanto da esplorare a casa propria. Negli Usa, solo il 36 per cento dei residenti ha un passaporto, in buona parte perché l’offerta di luoghi da vedere tra la costa atlantica a quella del Pacifico è così vasta e variegata. La narrazione dell’America, lo spirito del paese e il suo immaginario collettivo, dalla letteratura al cinema, sono largamente basati sul viaggio dentro i confini degli Stati Uniti continentali, con qualche avventurosa irruzione su al nord in Alaska fin dai tempi di Jack London. A differenza del “Grand Tour” dei giovani aristocratici europei, in assenza di siti archeologici e musei il viaggio americano è sempre stato fin dagli inizi una faccenda più pragmatica, un’esperienza di immersione nella natura. Anche in questo campo, come in molti altri, ad aprire la strada non tanto al viaggio, quando al racconto dei viaggi, è stato il padre della patria: George Washington.

 

Il lungo “trip” del ventunenne Washington è un’avventura che negli Usa si studia a scuola. Il giovane maggiore della milizia della Virginia nel 1753 fu inviato ad esplorare le fortificazioni e i villaggi che i francesi stavano costruendo lungo il fiume Ohio, nella zona dell’attuale Pennsylvania dove oggi sorge Pittsburgh. Doveva portare ai francesi un messaggio chiaro da parte della Corona britannica: quelle terre sono nostre, sloggiate. Ma Washington fece assai di più e la sua missione divenne una vera iniziazione, un’avventura su cui poi costruì la carriera che lo portò alla guida delle colonie ribelli e infine a diventare il primo presidente dei neonati Stati Uniti. Il giovane ufficiale viaggiò per milleseicento chilometri dalla Virginia attraverso la catena dei monti Allegheny, in compagnia di una piccola banda di compagni d’avventura: un esploratore, un interprete, alcuni commercianti di pelli e un drappello di nativi americani che facevano da scorta e da scout. Washington si spostò a cavallo, a piedi, in canoa e su imbarcazioni improvvisate, superò il fiume Ohio e arrivò fino ai Grandi Laghi, prendendo appunti continuamente su un diario e tracciando mappe di luoghi fino ad allora inesplorati dai coloni. Al suo ritorno in Virginia due mesi e mezzo dopo, gli fu commissionato un rapporto scritto che divenne subito un caso letterario. Pubblicato con il titolo The Journal of Major George Washington, divenne un libro popolarissimo nelle colonie e rese celebre il suo autore. 

 

Fu un po’ l’inizio di una letteratura di viaggio che nasceva per altri scopi, non per intrattenere, ma che si rivelò una modalità potente per conoscere e far conoscere un paese giovane. Anche i buoni rampolli dell’aristocrazia europea, che nel nostro continente avrebbero fatto un Grand Tour artistico e intellettuale, in America si trasformavano in qualcosa di nuovo e diverso. Il caso più sorprendente è quello di Alexis de Tocqueville. Quando si pensa a La democrazia in America e al suo straordinario successo nel diciannovesimo secolo, raramente si ricorda come è nato il libro e che età avesse il suo autore. Vista la solidità dell’analisi di Tocqueville sul sistema americano, che rende il suo tomo di mille pagine ancora attualissimo e presente nei corsi universitari, la sensazione diffusa è che si trattasse di uno scrittore già affermato e di un sofisticato e navigato osservatore della politica e del diritto. Il problema è che la Democrazia è probabilmente uno dei libri sull’America più citati e meno letti e sfugge così il fatto che è frutto di una narrazione di viaggio. Tocqueville aveva 26 anni quando sbarcò in Rhode Island con l’amico Gustave de Beaumont ed era un giovane aristocratico cattolico annoiato dal lavoro di magistrato in Francia. Alexis e Gustave, noti per essere amanti della vita notturna e delle belle ragazze, si erano imbarcati per l’America con un inganno: si erano fatti pagare dal governo francese una ricerca sul sistema penitenziario americano, ma non avevano alcuna intenzione di fare un giro nelle carceri della neonata repubblica. Invece intrapresero un avventuroso viaggio di nove mesi che li cambiò profondamente e cambio anche il corso della politica mondiale. Perché quello che Tocqueville documentò, insieme alle bellezze dell’America, fu l’esistenza della possibilità di costruire una democrazia liberale funzionante, profondamente diversa dalle moribonde monarchie europee. Furono 271 giorni di avventure negli Usa e quindici in Canada segnati da spostamenti a cavallo, in canoa o in carrozza, da malattie e contrattempi di ogni genere e da momenti di vero stupore in mezzo alla natura incontrastata. Tocqueville intervistò gente comune e presidenti (quello in carica, Andrew Jackson, e il predecessore John Quincy Adams), politici e magistrati, e riuscì a spiegare l’America agli americani meglio di quanto non avessero fatto essi stessi fino ad allora. Tutto attraverso un viaggio. Dopo di lui, gli europei continuarono a essere attratti da questo senso dell’avventura nel Nuovo Mondo e furono protagonisti di alcuni dei migliori lavori di narrativa di viaggio americana: è il caso, per esempio, delle American Notes di Charles Dickens (1842).

 

L’epopea dei pionieri, il mito della California, la corsa all’oro in Klondike continuarono ad alimentare la passione per il viaggio a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Il treno aprì nuove possibilità, ma fu l’avvento dell’auto a cambiare di nuovo tutto. Con la Model T di Henry Ford gli spostamenti sulle quattro ruote divennero alla portata di chiunque, ma fino agli Trenta i viaggi in auto restarono di breve lunghezza. Ci si muoveva nelle città che erano diventate caotiche metropoli o da un punto all’altro a poca distanza nelle pianure sterminate del Midwest. Poi arrivò la Depressione e il grande viaggio divenne un esodo della miseria, un’avventura di disperati che mollavano tutto, dal Kentucky all’Oklahoma, per mettersi in viaggio verso la California e la speranza di una vita migliore. E’ l’epopea su autocarri malconci che John Steinbeck seppe raccontare meglio di tutti nel suo Furore e fu l’inizio anche del mito (prima tragico, poi turistico) della Route 66, la “strada madre” che collegava Chicago a Los Angeles. 
L’auto divenne sinonimo di libertà e di trasgressione dopo la Seconda guerra mondiale, quando una generazione di ribelli ne fece il proprio simbolo e strumento di fuga. Sulla Strada di Jack Kerouac e la letteratura della Beat Generation contribuirono molto a costruire l’idea della grande traversata del paese da est a ovest e viceversa. Ma anche la musica e il cinema salirono in auto o sulle moto (Easy Rider), da Elvis Presley fino al Born to Run di Bruce Springsteen. Lo stesso Boss, peraltro, per decenni ha considerato i viaggi dal suo New Jersey alla California come il vero modo per raccogliere storie per i suoi brani, ma anche per provare a fare i conti con la depressione che lo affligge e che ha raccontato nella propria autobiografia.

 

Attraversare il paese non solo come un segno di protesta, dunque, non solo come modalità per fuggire e cambiare vita, ma anche per cercare di capire l’America. Lo intuì benissimo ancora Steinbeck nel 1960. Erano passati 21 anni dal successo di Furore, ne mancavano ancora due prima che quel libro gli fruttasse il Nobel per la letteratura e Steinbeck si rese conto di aver bisogno di lasciare il suo studio di New York e il tavolo da lavoro perché si era “dimenticato” l’America di cui scriveva da decenni. Fu così che nacque una delle sue opere più insolite e curiose, Viaggio con Charley. L’incipit del libro potrebbe essere il perfetto riassunto dell’inquietudine e del bisogno di viaggiare americano: “Quando ero giovane e avevo in corpo la voglia di essere da qualche parte, la gente matura m’assicurava che la maturità avrebbe guarito questa rogna. Quando gli anni mi dissero maturo, fu l’età di mezzo la cura prescritta. Alla mezza età mi garantirono che un’età più avanzata avrebbe calmato la mia febbre. E ora che ne ho cinquantotto sarà forse la vecchiaia a giovarmi. Nulla ha funzionato”. La cura per Steinbeck fu semplice. Era l’anno delle elezioni per la Casa Bianca che vedevano contrapposti John F. Kennedy e Richard Nixon e lo scrittore decise che avrebbe attraversato il paese per tastarne il polso in vista del voto, ma anche per respirarne il profumo di prati e di alberi e riscoprire i colori della natura. Affittò un camper in Maine, ci salì con il suo barboncino francese, Charley appunto, e partì on the road da solo con il cane, attraverso strade e autostrade, fermandosi a chiacchierare con gli americani nei diner, accampandosi nel parco di Yellowstone e raggiungendo alla fine San Francisco. Il tutto per riscoprire l’identità di un’America che si apprestava ad eleggere il giovane Jfk.

 

Ovviamente negli Usa che stanno ripensando tutta la loro storia rimettendola in discussione, molto spesso in modo ingenuo o profondamente ideologico, anche il “grande viaggio” è finito sul banco degli imputati. Perché è una tradizione in gran parte appannaggio di uomini bianchi. Fino a poco tempo fa non c’era molta letteratura di viaggio al femminile, perché le donne – è il capo d’accusa – non avevano la stessa libertà degli uomini di mollare tutto e partire. Mentre per gli afroamericani il viaggio per lungo tempo è stato considerato esodo, spostamento forzato, fuga dal sud segregazionista. Non certo turismo o scoperta, come ha documentato pochi anni fa il film premio Oscar Green Book. In fondo anche quello che l’America sta compiendo nella rilettura della propria storia è un grande viaggio, fatto spesso di itinerari sbagliati e strade senza sfondo, incattivito dalle accuse di razzismo o di wokismo. Uno come Tocqueville se viaggiasse oggi, due secoli dopo la sua avventura, si divertirebbe molto ad analizzare la strana fase che vive la democrazia in America. E forse si preoccuperebbe un po’ per la tenuta di un sistema che un tempo il giovane scrittore francese aveva indicato come un esempio per il mondo.

Di più su questi argomenti: