Foto di Ben Curtis, AP Photo, via LaPresse 

la riflessione

Si può scrivere un libro di viaggio in quest'epoca colpevolizzante e post coloniale

Giulio Silvano

Un genere di successo per secoli oggi messo in crisi. Possiamo scinderci e trovare liricità nella sagoma di un bambino nel deserto e sentirsi in colpa di fare una foto. Nell'epoca dell'awarness, l'andare è ancora "l'esperienza del non esperto"?

L’osservazione, il racconto di un mondo altro, così come le fotografie di Life o del National Geographic, hanno perso la loro forza, considerato il bombardamento visuale di internet e tv di luoghi pittoreschi e terre lontane (e poi con la realtà virtuale potremo essere al Cairo dal nostro salotto, dice Zuckerberg). Ma questo processo ormai va avanti da parecchio tempo. Non dobbiamo affidarci più a Pausania il Periegeta che ci racconta i paesaggi della Beozia, certo, o a Marco Polo per conoscere usi e costumi della Cina, già da qualche secolo il resoconto dei viaggiatori diventa spesso per il lettore più interessante per conoscere il viaggiatore che non il paese.

L’odore dell’India di Pasolini ci dice di più su PPP rispetto a quanto non ci dica su Calcutta (molto meglio la “risposta” di Manganelli Esperimento con l’India). Oppure ci dice qual era, nell’epoca in cui vive lo scrittore, la visione di un determinato paese. In questo senso, ma non solo, è da recuperare il libro di Fosco Maraini, Le Pietre di Gerusalemme, uscito da poco per il Mulino e fino a ora disponibile solo in inglese. Un viaggio tra rovine, sinagoghe, persone, e uno stato che ancora si sta formando – siamo nel 1967 – attraverso le stratificazioni religiose e la vita di tutti i giorni. “Non hai fatto in tempo ad ammirare un pope ortodosso, pallido ed elegante quasi fosse sceso da un quadro di El Greco, che quello è già sparito oltre un gruppo di donnone arabe ricoperte di vesti che paiono tappeti”.

Quello che oggi però ci chiediamo è: si può, alla luce della grande presa di coscienza post coloniale, che ha ormai avvolto musei, università, individui, scrivere di un luogo esotico? Si può parlare di una popolazione altra tenendo conto della cancellazione della dicotomia noi/loro che ci chiedono gli studi post coloniali? Possiamo trascrivere le impressioni dei nostri pellegrinaggi turistici nei paesi in via di sviluppo senza venir messi all’indice come se si trattasse dei Watussi di Vianello? Una risposta sta forse nel libro del poeta Tommaso Giartosio appena uscito per Einaudi dal titolo Tutto quello che non abbiamo visto.

È un vero libro di viaggio, in forma epistolare, fatto in Eritrea, poco prima del Covid, per tre settimane. Per Giartosio l’avventura è intrisa dal senso di colpa. “Per la prima volta io occidentale, io italiano, andavo a trovare a casa sua gente che avevamo conquistato e tormentato e poi piantato lì e dimenticato, e che spesso compiva il percorso inverso e trovava in Italia lo stesso razzismo di cent’anni fa”. Lo scrittore è separato in due, l’individuo osservatore curioso da una parte, dall’altra il rappresentante dell’occidentalità che si sente addosso le colpe dei padri. Quello che sta in mezzo, il risultato di questa lotta interna, è la sensazione che ci portiamo addosso leggendo il libro di Giartosio, una sintesi tra poesia e senso della storia.

Si può ancora guardare e trovare meraviglia nel degrado di Asmara che ricorda le città italiane prima del “decoro”, e allo stesso tempo si possono studiare i colpevolizzanti lasciti mussoliniani degli anni Trenta. Possiamo scinderci e trovare liricità nella sagoma di un bambino nel deserto e sentirsi in colpa per volerci fare una foto, come se equivalesse a sfruttarlo. Ci può essere una convivenza tra consapevolezza del pregiudizio e lo sbigottimento, o ammirazione, per i costumi di un paese africano. Cos’è il racconto di viaggio? Si chiede l’autore. “È l’esperienza del non esperto”. Ma oggi, nell’epoca dell’awareness il viaggio è anche l’esperienza del conflitto tra osservatore sognante e osservatore pensante.

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