Mohsin Hamid (Ansa)

riconoscersi

Nel suo ultimo libro, Mohsin Hamid racconta cosa resta quando tutto cambia

Valentina Berengo

L’ultimo uomo bianco scandaglia il tema dell'identità costruendo un romanzo breve, centellinato, e straziante. E descrive la scomposizione dei sentimenti, quelli che fanno degli esseri umani esseri senzient,  in frammenti elementari che ritroviamo immutabili

L’identità è qualcosa che abbiamo appiccicata alla pelle? Passa da dentro a fuori e da fuori a dentro senza che ne abbiamo il controllo? E’ addirittura qualcosa di collettivo prima ancora di essere individuale? Mohsin Hamid, fenomenale autore de Il fondamentalista riluttante e di Exit West, in L’ultimo uomo bianco (Einaudi, 2023) scandaglia il tema costruendo un romanzo breve, centellinato, e straziante. Perché poco importa cosa succeda fuori – una catastrofe, un incidente, una trasformazione (nella fattispecie il protagonista si risveglia con la pelle nera e le fattezze di un nero, e dopo di lui a tanti altri succede lo stesso): il meccanismo basale dell’animo umano, e della buona letteratura, è quello di riuscire a esprimere quello che si sposta dentro.

L’incredulità, la paura, l’accettazione, la ridefinizione di sé, l’incedere di una nuova realtà e di una nuova verità che dilagano, come acqua che cola, non solo in ciascuno singolarmente ma nella collettività che non si riconosce e per questo si frantuma. Pare una malattia autoimmune, ha gli effetti devastanti (che ben conosciamo) di una pandemia, spinge al suicidio: veniamo al mondo quando non abbiamo modo di ricordarlo, cioè con gradualità, è mai possibile sopportare la rinascita quando non la si è cercata?

“Anders disse che non era sicuro di essere ancora la stessa persona, all’inizio sentiva di essere sempre lui sotto la superficie, chi altro avrebbe potuto essere, ma non era così semplice, e il modo in cui reagisce la gente intorno a te cambia ciò che sei, la persona che sei”.

 

Urge trovare il modo di affermare l’identità: viene di pensare a quegli empiristi inglesi per i quali ciò che è non può essere mai indipendente da chi lo percepisce. E allora come fare? Come riconoscersi e farsi riconoscere allo sportello di un ufficio quando la carta d’identità mostra la foto di un altro? O, peggio ancora, quando apriamo gli occhi appena svegli e la persona che abbiamo vicino non sembra più lei? Ecco, l’identità sta lì dove non l’immaginiamo. Perché, nella storia che ci racconta Hamid, nessuno si perde. Imbracciano il fucile per paura dei miliziani, si nascondono, si vergognano, si amano, sanno di essere la madre, la figlia, il figlio, il padre, nonostante non solo la pelle nera, ma nonostante soprattutto lo sconvolgimento che li attraversa.

 

Anders e Oona (che lungamente rimarrà bianca, dopo la metamorfosi del suo uomo) si annusano, capiscono di appartenersi per una qualche ragione più intima, si scoprono capaci di una resilienza strana, inaudita, che forse possiamo osare chiamare amore. Ecco perché strazia questo romanzo di Hamid: perché racconta la scomposizione dei sentimenti – sempre quelli, quelli che fanno degli esseri umani esseri senzienti – in frammenti elementari che ritroviamo immutabili. Perché dice cosa resta quando tutto cambia. Perché canta senza lirismo, e per questo in modo assoluto, l’amore, la morte, la vicinanza e la lontananza, il desiderio di vivere, di andare, di restare, la paura, il ristoro, il sapore delle omelette, i movimenti del sesso. Perché scardina il presente e gli trova un futuro.

 

Da un uomo e una donna che hanno perso la “bianchezza” che figli nascono? Cosa resta nella bara di legno dell’ultimo uomo bianco, morto giusto in tempo per restare tale? Che rapporto hanno una madre e una figlia diventate nere a distanza di poco tempo? Le domande restano, e scavano, anche togliendo il colore della pelle. Chi sono i figli? Cosa rimane dopo la morte? Che rapporto c’è tra te e chi ti ha messo al mondo?
“Anders la guardò, guardò sua figlia, […] e in quell’istante, senza volerlo, la immaginò da vecchia […] e sentì che lo colpiva, quell’immagine della figlia da lì a molti anni, e posò la sua mano marrone su quel viso marrone, rassicurandola, quella figlia scura, sua figlia, e lei miracolosamente lo lasciò fare”.

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