Facce dispari

Per Peppe Barra la tradizione è un canto che si rinnova ogni anno

Francesco Palmieri

Tra due anni ne saranno cinquanta che l'artista porta in teatro per Natale la “Cantata dei pastori”, la rappresentazione più dispari del cattolicesimo napoletano: "Dramma sacro, opera buffa, persino avanspettacolo”

Tra due anni ne saranno cinquanta che Peppe Barra porta in teatro per Natale la “Cantata dei pastori”, la rappresentazione più dispari del cattolicesimo napoletano. Nata nel 1698 dalla penna gesuitica di Andrea Perrucci per celebrare la Natività, inesorabilmente il popolo se ne appropriò e infarcì il copione di situazioni e personaggi profani – ma non profanatori. Una pietanza scenica ricca quanto la minestra maritata, sapida come un sartù. Beffando i secoli, la “Cantata” trecent’anni dopo è ancora fresca, sicché c’illude che il tempo sia flessibile o smarrisca la linea, come si suggerisce in “Peppe Barra racconta Napoli”, il libro scritto dall’artista con Conchita Sannino e uscito poche settimane fa per Laterza: “Il tempo, il progresso, le lancette dell’orologio, il futuro – diciamolo – si fermano e arretrano. O fanno strani giri”.

Avviene questo al “lume” della Natività, che non è appalto dei teologi ma di quisque de populo scruti un presepe oltre la seduzione del bozzetto. L’esempio è nel “Presepe favoloso” del Rione Sanità, tra i recenti il più bello, dove non manca la Zingara o Sibilla che reca nel paniere pinze, martello e chiodi della Passione. Alla nascita il dramma della storia era già scritto, ma presagirlo mentre i pastori adorano il Bambino smuove profondo struggimento. Altro che infantilismo.

Qual è la relazione tra presepe e “Cantata”?

Direi che sono la stessa cosa: la “Cantata” è un presepe in movimento dove i personaggi rivivono per magia per raccontare la nascita del “Vero Lume tra le ombre”, secondo il titolo originale del Perrucci. Oltre al diavolo Belfagor e all’arcangelo Gabriele, si ritrovano sulla scena i tipi del presepe napoletano che fanno da corolla a Giuseppe e Maria: il pastore dormiente Benino, suo padre Armenzio, il pescatore, il cacciatore. C’è il fiume, il bosco, c’è l’immancabile osteria.

 

Però è Razzullo la figura peculiare di cui lei indossa la maschera, un povero scrivano napoletano che si ritrova in Palestina e concorre inconsapevole alla nascita di Gesù.

A lui s’affianca dall’Ottocento il grottesco personaggio di Sarchiapone, che mia mamma Concetta fu la prima donna a interpretare. Ora lo recita Lalla Esposito, con umiltà e maestria: non è facile per un’attrice impersonare un carattere laido e deforme, un assassino, perché Sarchiapone è fuggito da Napoli dopo un omicidio. Ma la spiazzante magia della “Cantata” è che lui e Razzullo, irriverenti e folli, si redimono in questa fiaba della luce vittoriosa sull’ombra.

 

Qualcuno afferma che la centralità del “Dio Bambino” riveli tra i cattolici un rifiuto della complessità.

Questo è un pensiero contorto che nega la luminosità della visione poetica. Peraltro, nella “Cantata” l’arcangelo Gabriele preannuncia alla Madonna quanto accadrà a Gesù.

 

Perché recita la “Cantata” da quarantotto anni?

Perché è un’opera ogni volta diversa: non c’è edizione né serata che sia uguale a un’altra. La “Cantata” è diventata nei secoli un calderone della cultura teatrale napoletana: contiene il dramma sacro, l’opera buffa, la commedia dell’arte, persino l’avanspettacolo.
 
Dopo averla messa in scena a Napoli con la regia di Lamberto Lambertini, la proporrà dal 3 al 15 gennaio alla Sala Umberto a Roma. Non è un ambiente estraneo?

Sia a Roma sia in Europa la “Cantata” ha riscosso sempre successo. Forse per quel sapore naïf che colpisce ancor più fuori dall’habitat naturale.

Ha fatto il presepe?

Come ogni anno: è un momento di intenso affetto verso le mie radici e tradizioni. Ma ho addobbato anche l’albero di Natale.

 

Non crede alla suddivisione decrescenziana tra presepisti e alberisti?

Non m’interessa. L’albero esprime una tradizione che non ci apparteneva molto. Però è talmente bello…

 

La tradizione rischia mai di diventare nostalgica emozione o meccanico rito?

La tradizione vive perché si rinnova e si rinnova perché vive. Sarchiapone questa volta entra in scena in bicicletta nel tempo del Perrucci. E in quello di Gesù. Senza stonare.

Ha paura prima di uno spettacolo?

Mai. Sono nato a Roma perché a mamma si ruppero le acque mentre recitava al Teatro Valle. Il palcoscenico è il mio ambiente naturale e vedo il pubblico come il suo prolungamento.

 

Lei ha detto che non potrebbe vivere in una città “dove non aleggiasse la storia del principe di Sangro, o che non mi potesse aprire ogni mattina il prodigio del Cristo velato del Sanmartino” nella Cappella Sansevero.

Mi sono pure immaginato bambino, che vedevo per la prima volta quella statua straordinaria. Mi avevano detto che il Cristo si animava quando non c’era nessuno, così restai nascosto per provare: poggiai una mano sul lenzuolo e affondò nel marmo fino a toccargli il cuore. Una sensazione di luce, tattile ma impalpabile.

Ha un sogno artistico irrealizzato?

Forse alla mia età è irrealizzabile: interpretare Puck nel “Sogno di una notte di mezza estate”.

Ha mai giocato un sogno al lotto?

Ci gioco pochissimo. Dopo aver letto “Il paese di cuccagna” della Serao, che denunciava questa ludopatia, ho avuto paura di contrarre il vizio.

A Napoli vicino a casa sua c’è vico Rose, dal curioso percorso che fa tutt’uno col perimetro di un palazzo nobiliare. Chi ci entra per la prima volta non s’avvede che sbucherà straniato al punto di partenza. Come in un sogno.

La città è piena di queste entrate e uscite dal tempo, di vicoletti angusti che sfociano dall’ombra nella luce inaspettata. Come nella “Cantata”. Come su un presepe.
 


 

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