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teologo e linguista

Il tormento esistenziale di Gerard Hopkins, poeta vittoriano perfetto per il '900

Matteo Marchesini

"Poesie 1875-1889" è la selezione a cura di Viola Papetti edita per Einaudi. Occasione per conoscere l'autore: dall'adesione ai gesuiti, alle tendenze panteistiche e, ancora, alla repressa pulsione omoerotica

È uscita da Einaudi, a cura di Viola Papetti, una scelta delle “Poesie 1875-1889” di Gerard Manley Hopkins. L’edizione comprende un’ampia introduzione, un ricco commento ai testi, e in appendice un saggio giovanile di Giorgio Manganelli sulla lirica religiosa dei moderni inglesi. Sarebbe riduttivo definire Hopkins un grande poeta vittoriano.

 

È infatti un grande poeta del ’900, anche se vissuto nel secolo precedente. Non solo perché le sue liriche furono pubblicate postume nel 1914 dall’amico Robert Bridges, ma soprattutto perché le oltranze formali di Hopkins sono difficilmente conciliabili con la cultura tennysoniana del suo tempo, mentre hanno subito nutrito gli scrittori figli del modernismo. Come ha osservato Attilio Bertolucci: se i versi di Hopkins fossero usciti a fine ’800 non sarebbe forse stata necessaria l’avanguardia di Pound.

 

Colpirono in particolare Dylan Thomas, radicato in quel Galles in cui il vittoriano abitò e di cui studiò le ballate popolari. Ma la loro influenza è stata enorme. In Italia, Hopkins cominciò a essere commentato negli anni Trenta, da Giuseppe De Luca e da Benedetto Croce, e fu tradotto poi da Montale e da Fenoglio, il quale a giustificare la mancata ricerca, da parte dell’autore, di una normale diffusione dei propri testi, ricordava che quei testi erano per lui l’espressione più piena del suo dialogo con Dio.

 

Dopo la conversione al cattolicesimo avvenuta all’ombra di Newman, Hopkins scelse di entrare nelle file dei gesuiti; bruciò allora le prove giovanili, e soltanto nel 1875 riprese a scrivere a partire da un tema che nella sua opera ricorre più volte, quello del naufragio. In un paese che non amava l’Ordine, restò un gesuita anomalo, portando nella sua milizia una vasta cultura famigliare e oxfordiana in cui Ruskin e Pater convivevano con i dibattiti sull’anglicanesimo, e i presocratici con l’induismo.

 

Durante l’apprendistato nella Compagnia, anziché diventare tomista, Hopkins s’innamorò di Duns Scoto, il francescano che esalta la singolarità individuale; iniziò a mostrare “pericolose” tendenze panteistiche; e in una manciata d’anni si lasciò consumare dalla contraddizione tra la disciplina e una vivacità sia intellettuale sia emotiva davvero indomabile, continuamente tesa all’estremo, nonché deformata dalla repressa pulsione omoerotica.

 

L’insegnamento opprimeva il poeta, il pubblico rideva sconcertato alle sue prediche troppo sottili. Poco prima di spegnersi, riflettendo su un’esistenza che sentiva incompiuta, si chiese se non fosse rimasto un “ansioso eunuco”. Ma intanto aveva creato un’opera originalissima, e corredata da note che prescrivevano perfino la pronuncia dei testi, quasi fossero spartiti (Hopkins componeva musica).

 

La sua ricerca si era infatti concentrata sullo sprung rhythm, cioè su un modo di scandire i versi (tipico di tante canzoni popolari, ma qui legato a esiti di vertiginosa complicazione intellettualistica) che punta su un numero fisso di accenti e non di sillabe, producendo così effetti di ininterrotta variabilità, contrazioni e allentamenti ritmici estremamente suggestivi. La poesia di Hopkins, al pari del mondo che loda e che lo strazia, sembra sempre allo stato nascente; e la sua lingua al limite del nonsenso (l’autore amava Edward Lear) dà l’illusione di poter essere toccata come un oggetto fisico.

 

Il gesuita, chiosa la curatrice, fu al tempo stesso “poeta, teologo, linguista”. Massima è in lui la sollecitazione sonora; continuo l’uso di allitterazioni al limite del bisticcio, e di contorsioni sintattiche o neoformazioni linguistiche che appaiono come il correlativo di una natura ogni volta nuova, unica, incomparabile. Quando si legge Hopkins si ha l’impressione di assistere alla lotta di un corpo torturato, costretto in un carcere, che istante dopo istante risorge in un improvviso scintillio, si libera dal giogo con una scossa entusiasta, torna a sbocciare respirando la vita a pieni polmoni.

 

Orientarsi sulla pagina è difficile, a quanto pare anche per gli inglesi. Un amico del poeta, Patmore, parlò di “vene d’oro puro insabbiate in masse di impraticabile quarzo”. A trionfare è comunque il paesaggio, una natura radiosa e violenta su cui spicca qua e là una chiazza di umanità popolare. Intorno tutto è fragrante, cristallino, tumultuoso, rorido, gonfio di linfa. A libro chiuso si ricordano le allodole simili a folli manovelle musicali, i pioppi abbattuti che mai più concederanno all’occhio di cogliere la loro dolce scena rurale, la benedizione gioiosa o sofferta delle tempeste esterne e interne attraverso cui Dio forgia e fa tremendamente brillare il creato.

 

Di questo Dio, che accarezza il cuore dopo averlo ritorto, si può toccare “il dito”. Il mondo trabocca della sua grandezza, ne è percosso; perciò rinasce perennemente vergine, malgrado l’uomo perennemente lo infanghi coi suoi loschi commerci cittadini (non siamo lontani dalla visione di un Clemente Rebora, che Raboni non a caso associava a Hopkins). “Cristo gioca in diecimila luoghi”, è detto in uno dei sonetti più felici. Altrove, nei dettagli della campagna, il poeta va a “spigolare il nostro Salvatore”, e la Beata Vergine dalla quale ogni cosa viene incessantemente partorita è “paragonata all’aria che respiriamo”.

 

Sono tutte declinazioni dello stesso tema che trionfa nella lirica forse più famosa di Hopkins, quella della Bellezza screziata o “cangiante”, come Montale traduceva la “Pied Beauty”. Ecco i suoi versi, a proposito dei quali la Papetti parla con molto acume di “pointillisme divino della creazione”: “Sia gloria a Dio per le cose chiazzate – / per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata; / per i nei rosa in puntini sulla trota che nuota; / per i crolli di castagne tizzoni ardenti; le ali dei fringuelli; / il paesaggio tracciato e spartito – stazzo, maggese, e aratro; / e tutti i mestieri, con livrea e attrezzatura e foggia. // Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?) / con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo; / Egli pro-crea la cui bellezza mai muta: / lodatelo”. 

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