Foto di Sydney Rae, via Unsplash 

oltre la retorica stucchevole

Non servono universalismi astratti per giustificare il dialogo tra culture

Sergio Belardinelli

Il dono dell’alterità permette di scoprire come le tradizioni siano vitali nella misura in cui sono capaci di mettersi continuamente in dubbio e ritrovare la loro identità costitutiva 

La lingua rappresenta indubbiamente uno dei tratti identificativi più importanti di una cultura. È difficile appropriarsi di una cultura senza conoscerne la lingua. Tuttavia ciò non significa che lingua e cultura siano due elementi, diciamo così, sovrapponibili l’uno all’altro. Una cultura è molto di più di una lingua. Né, a maggior ragione, si può misurare in base alla lingua la presunta superiorità di una cultura su un’altra, come si usava fare nel XIX secolo. Una comunità linguistica è senz’altro anche una comunità sociale radicata in una storia e in una cultura più o meno civili, più o meno amanti della conoscenza, più o meno avvezze alla bellezza o alla buona educazione, ma questi tratti non dipendono certo dalla specificità della lingua. Ogni lingua, è persino pleonastico dirlo, si porta dietro un sistema di tradizioni, valori, sentimenti, emozioni, diciamo pure una cultura, che in quella lingua si esprime sia a livello individuale che sociale, ma non è la lingua a determinarne natura, valore e spessore.  

 

Ogni cultura esprime in ultimo un modo di essere uomini, un nucleo di valori, conoscenze, pratiche che nella loro particolarità rinviano sempre a un elemento universale: l’umanità dell’uomo che le ha forgiate. Per questo anche nelle tradizioni culturali e linguistiche più differenti c’è sempre un seppur minimo elemento che le accomuna, aprendole l’una all’altra. Non è detto ovviamente che dall’incontro interculturale scaturisca necessariamente la piena comprensione, né che una lingua sia sempre pienamente traducibile in un’altra. Il più delle volte la comprensione è parziale e qualche volta si verificano persino forme di chiusura e di intraducibilità. Ma succede anche che, proprio grazie all’incontro con la diversità, le culture e le lingue comprendano meglio se stesse. In ogni caso mai e poi mai si verificherà una incommensurabilità assoluta. Se tale incommensurabilità esistesse, sarebbe semplicemente ermetica, incomunicabile. Anche tra due culture le più differenti c’è sempre insomma un seppur minimo terreno comune, il quale, a sua volta, non emerge successivamente alla comprensione tra di esse, ma è piuttosto la condizione che la rende possibile. 

 

Ovviamente ciò non deve indurci a trascurare la specificità che è tipica di ogni cultura, né il fatto che il linguaggio al quale si fa riferimento allorché si tratta di tradurre contenuti culturali da una lingua a un’altra non è mai qualcosa di astratto o universale, bensì sempre quello di una particolare comunità, che vive in un certo tempo, condividendo determinate credenze, valori e istituzioni. Non è detto insomma che i concetti elaborati in una lingua siano sempre traducibili in un’altra. Zone di conflitto e di intraducibilità si incontrano non soltanto allorché si ha a che fare con culture diverse, ma anche all’interno di una stessa cultura. In ogni caso lo sforzo che bisogna fare è sempre quello di mettersi al posto dell’altro, di guardare il mondo con i suoi occhi, ben sapendo quanto sia rilevante il peso della storia, della tradizione, diciamo pure della cultura, nella quale siamo cresciuti, ma anche fiduciosi del fatto che, pur con tutte le differenze, nessuna cultura è a priori un universo chiuso e impermeabile. 

 

Ognuno di noi è continuamente provocato da novità provenienti sia dall’interno che dall’esterno della cultura alla quale appartiene. È grazie a queste novità che impariamo a prendere un po’ le distanze da noi stessi, ampliando i nostri orizzonti e comprendendo meglio chi siamo. Ma per fare questo non è che dobbiamo assumere un presunto punto di vista esterno, ritenuto valido per tutte le culture, come suggerisce un certo universalismo astratto oggi di moda. La comune appartenenza al genere umano non implica alcun punto di vista esterno; piuttosto ci sollecita ad andare più a fondo all’interno della nostra cultura, nel tentativo di trovare le risorse semantiche necessarie a rendere ragione delle “novità” con le quali gli altri ci chiamano volta a volta a fare i conti.

 

Una tradizione è viva e vitale nella misura in cui è in grado di identificare ciò che la costituisce e di rileggersi continuamente in base al nuovo che la provoca. Ma il fatto che le tradizioni si formano e si trasformano, elaborando in continuazione sia ciò che è loro proprio, sia ciò che giunge loro dall’esterno, non le sottrae per questo alla loro specificità, né le rende traducibili a priori in un presunto linguaggio universalistico. Le rende semplicemente più riflessive, più consapevoli delle risorse che contengono e forse persino grate delle provocazioni che hanno consentito a queste risorse di venire in superficie. Purtroppo se ne fa spesso un uso retorico stucchevole, ma l’alterità è veramente un dono.

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