Ansa

Un'altra Dichiarazione Universale Unesco

Ohibò, il "bene comune" culturale

Maurizio Crippa

Tre giorni di lavori e 183 ministri per varare l'ennesima Dichiarazione (del resto, è un'organizazione dell'Onu, qualcosa dovrà fare). Con tanto di benchmark “Cultura 2030” per raggiungere ben 22 risultati nella direzione di rendewre la "cultura bene comune". Speriamo ci lascino liberi di fare cultura ognuno come gli va

Viviamo in tempi interessanti, era il claim della Biennale d’Arte di Venezia poco prima che arrivasse il Covid e i tempi si facessero interessanti per davvero, anche se meno estetizzanti. La complessità dei tempi, anche se ci si limita alla cultura, è un’evidenza persino banale. E si può comprendere che una istituzione di impatto globale come l’Unesco – organizzazione delle Nazioni Unite che tra i suoi impegni istituzionali, nonché tra le giustificazioni della sua costosa e sovente pletorica attività, vanta l’elaborazione di Dichiarazioni Universali – si sia sentita in dovere di ufficializzare un punto di vista unanime e mondiale su come affrontare i tempi difficili (ma interessanti, eh) della cultura intesa come “bene pubblico globale”. Per tre giorni, dal 28 al 30 settembre scorsi a Città del Messico,  si sono riuniti in 2.600, tra cui 135 ministri della Cultura, 83 ong, 32 organizzazioni intergovernative e 9 agenzie dell’Onu per stabilire, ebbene sì (ma per la prima volta nella storia, eh) che la cultura è un “Bene pubblico globale”. E dunque i dichiaranti di Mondialcult 2022 (il nome dell’assise) chiedono che la cultura venga inclusa “come obiettivo specifico a sé stante” tra i prossimi Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Al pari di obiettivi come la carbon neutrality o l’eradicazione della fame nel mondo (che, ad ogni buon conto, è un obiettivo dell’Agenda 2030: ma di cui al momento non parla più nessuno e il cui raggiungimento appare ancora lontano).

 

Ma la cultura, la cultura in quanto bene immateriale, come “L’arte musicale dei suonatori di corno da caccia” o il Reggae giamaicano, può ben essere dichiarata sotto tutela per tutti, e i diritti resi nominalmente intangibili: che si tratti di quelli sociali e civili degli artisti oppure quelli delle comunità indigene “al godimento del loro patrimonio culturale” fino alla tutela dei manufatti artistici. Tanto, non c’è bisogno di specificare nel dettaglio come tutto questo sarà monitorato e realizzato. Anche se l’Unesco ha posto anche il benchmark “Cultura 2030” (può mai mancare una deadline in una Dichiarazione Universale?) Con 22 indicatori, che vanno dalla protezione dell’ambiente, all’istruzione, all’uguaglianza di genere. Nulla di male, il tutto questo. Se non fosse per l’esorbitante uso di troppe parole senza riscontro. La mente corre a una delle più importanti dichiarazioni fatte negli ultimi vent’anni, quella sulla “Diversità culturale”, che doveva certificare la nuova èra di una globalizzazione rispettosa di tutti e che bandisse i conflitti tra i popoli. Ma fu firmata a Parigi due mesi dopo le Torri Gemelle, e per un bel po’ non se ne seppe più niente. Oggi, a rileggere l’impegno alla “interazione armoniosa e a una sollecitazione a vivere insieme”, vengono i brividi al pensiero della inattualità del proposito. Si spera almeno che “la possibilità di esprimersi, di creare e diffondere le proprie opere nelle lingua di sua scelta”, o il diritto “a una educazione e formazione di sua scelta”, vengano considerate universalmente protette, al riparo non dei globalizzatori cattivi, ma dei volenterosi profeti della Polizia del pensier.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"