Un carro armato ucraino a Kharkiv (Ansa)

In libreria

Hermans racconta la guerra, libero da negazionismo e antisemitismo 

Guido De Franceschi

Un romanzo del 1958, ambientato negli anni del secondo conflitto mondiale, che narra le vicende di un "partigiano per caso" e permette di risintonizzare su una maggiore lucidità i propri pensieri sul tema delle guerre. In particolare nei giorni in cui l'Ucraina è invasa dai russi. Letture salutari come “La camera oscura di Damocle”

In tempi di guerra – quella in Ucraina, in questo caso – è sempre salutare avere sotto mano qualche nuovo libro per provare a risintonizzare su una maggiore lucidità i propri pensieri al riguardo. Ed è quindi una fortuna che sia appena uscito “La camera oscura di Damocle” di Willem Frederik Hermans (1921-1995). La comparsa nel catalogo di Iperborea di questo romanzo del 1958 dà un contributo importante alla fruibilità in italiano di un grande scrittore olandese, di cui nella nostra lingua erano stati pubblicati finora, alla chetichella, soltanto “Alla fine del sonno” (Adelphi) e l’indimenticabile long-short story “La casa vuota” (Bur), anch’essa ambientata, come “La camera oscura di Damocle”, durante la Seconda guerra mondiale.

 

“La camera oscura di Damocle” racconta le vicende di Osewoudt, un “partigiano per caso” olandese durante l’occupazione nazista dei Paesi Bassi. Osewoudt, che ha le idee confuse, obbedisce agli ordini di tale Dorbeck che conosce appena: si è fatto arruolare da lui nella Resistenza antinazista per il solo fatto che i due, Osewoudt e Dorbeck, sono fisicamente identici salvo che per quei tratti (i capelli troppo biondi, la mancanza assoluta di barba) di cui il primo si è sempre vergognato. Poi, alla fine della guerra, dopo un intreccio incalzante di vicende, la figura di Osewoudt, forgiata in un quinquennio da eroe della Resistenza, rivela d’improvviso un aspetto diverso, quando una nuova luce illumina, annerendola, la pellicola della sua vita.

 

Ma perché un libro “bellico” di Hermans è salutare in tempo di guerra? E perché esso ha un valore aggiunto in tempi in cui si cavilla per mesi sulla moralità dei componenti del Battaglione Azov e poi, se questa moralità non appare (perché non lo è) nivea e immacolata, questo sembra sufficiente a tracciare equivalenze tra invasori e invasi? Un libro di Hermans è salutare perché – mentre ci si rotola nel suo racconto dei disastri della guerra tracciati in un bianco e nero goyesco, mentre si assiste allo sbriciolamento di ogni romanticismo della Resistenza e ci si vaccina contro ogni idillio dei “buoni”, mentre si osserva la bruttura di sordide anime senza qualità descritte con cupa sveltezza simenoniana, mentre ci si convince che alla fine gli esseri umani siano una porcheria da entrambi i lati della barricata e che la guerra non faccia altro che far emergere questa verità con abbacinante evidenza – non si sente però mai, come per miracolo, il tanfo del negazionismo: non si vedono trasudare dei collosi “sono tutti uguali” e non si avverte mai l’infiltrazione di umori tossici come l’antisemitismo di un altro pacifista feroce, Louis-Ferdinand Céline.

 

Si sente piuttosto, applicata a uno stile di scrittura del tutto diverso e calata nel periodo della Seconda guerra mondiale, l’implacabilità antiretorica e antipatriottica di un Thomas Bernhard che, quando accusava di nazismo i tre quarti abbondanti dell’Austria democratica del Dopoguerra, non si sognava certo con questo di diluire con un assolutorio “il più pulito c’ha la rogna” le responsabilità e gli orrori dei nazisti, quelli veri, che marciavano attraverso Vienna nel 1938.

 

E dell’austriaco Bernhard (che era nato anche lui in Olanda, ma soltanto per puro caso) Hermans aveva anche la stoffa di polemista fiammeggiante e di brutto-carattere professionale. Già all’indomani della guerra lo scrittore olandese squarciò con scandalo la grancassa retorica della Resistenza del suo paese, ma contemporaneamente colpì l’ipocrisia colonialista dei Paesi Bassi, mettendola a nudo in un romanzo dal titolo sobrio: “Io ho sempre ragione”. Lasciò poi l’Università di Groningen dove (di mala voglia) insegnava Geografia dopo che si era discusso, perfino in Parlamento, del suo dedicarsi più alla scrittura che alla docenza. Abbandonò quindi l’Olanda (paese “troppo piccolo per significare qualcosa”) per Parigi. E da lì infilzò gli ex colleghi con il velenoso libro “Onder professoren” (“Tra professori”). Lui, antirazzista manifesto e marito di una surinamese nera, sfidò anche il divieto per gli scrittori di andare a parlare nel Sudafrica dell’apartheid: fu “bandito” per questo da Amsterdam (ma alla fine sarà il sindaco della città a scusarsi con lui, e non viceversa). Infine, si oppose all’uscita di due suoi libri in Francia perché la traduzione era stata completata in ritardo rispetto alla data convenuta.

Forse è proprio sulla guerra – che per lui fu un trauma particolarissimo, dal momento che nel 1940 la sorella ventunenne Corry si era suicidata insieme con il suo cugino-amante proprio nel giorno esatto dell’invasione dell’Olanda da parte dei nazisti e proprio per il terrore del futuro – che Hermans ha scritto le pagine più impressionanti e più illuminanti da leggere in tempi di conflitto. Ma in ogni caso vorremmo poter finalmente leggere anche altri suoi libri in italiano.
 

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