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i diari

Il dandy Barbey d'Aurevilly in lotta estetica contro la socialità borghese

 Alfonso Berardinelli

I “Memoranda” tradotti per la prima volta in italiano, un eloquente documento di quella tipica modernità antimoderna severamente aristocratica

Misurato con il criterio dell’oggi, che volgarmente si dà da fare per essere già un domani immaginario, i diari, i Memoranda di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808-1889) sono solo una stravagante squisitezza antiquaria. Per la prima volta tradotti e prefati da Vito Sorbello (Aragno editore, 550 pp., 30 euro), questi diari di un dandy moralista romantico sono un eloquente documento di quella tipica modernità antimoderna severamente aristocratica nella quale l’individualismo più elaborato, esasperato e introverso coltiva sé stesso disprezzando la nuova socialità democratica e la “piatta” religione del progresso.

L’ultima, lunga fase o piena maturità del romanticismo francese è una lotta estetico-morale contro il dilagare della borghesia, con la sua “sottise” e “betise” (due parole chiave nell’opera di Baudelaire e di Flaubert).
La solitudine di Barbey, esibita e patita, è intossicata di cattiva o viziosa socialità. Nella più analiticamente, minuziosamente socializzata delle società europee, quella francese e parigina, vivisezionata da Balzac, la solitudine di un tale diarista finisce per essere una cronaca della noia e del nulla di relazione.

Devo dire che se mi avventuro imprudentemente nella lettura di questi Memoranda è sia perché non avevo mai letto una riga di Barbey d’Aurevilly, sia per la curiosità che ho sempre avuto per i diversi stili diaristici: che possono andare dalle annotazioni asintattiche, che spesso sembrano geniali perché sono solo incomprensibili o promettenti, a una perfezione classica dello stile.

 

Come è noto, i francesi hanno una tradizione e passione per il perfezionismo formale e le acrobazie intellettuali. Ma in un diario che dovrebbe essere scrittura intima e privata? Il movente più serio di ogni diario è morale: coltivazione dell’autocoscienza, miglioramento di sé, confessioni inconfessabili. La cultura francese, tuttavia, oltre a essere votata all’autoanalisi (da Montaigne e Pascal fino a Gide) è anche una cultura della conversazione, anzi della teatralità intellettuale. Barbey schivò il diario autoreferenziale e scelse di dedicare i suoi diari sempre a qualche preciso amico e destinatario. Così il monologo diventa monologo in scena. Così, come dice Vito Sorbello nel suo saggio introduttivo, il diarista coincide con il “conversazionista”, realizzando “una traslazione naturale e simultanea tra conversazione e scrittura diaristica”. L’oralità diventa scrittura e la scrittura di un diario “di conversazione” diventa una specie di letteratura prima della letteratura. Cioè letteratura potenziale, informale, poco letterariamente specializzata. Barbey praticò vari generi letterari (novella, romanzo, saggio critico) ma è stato anche giornalista (articoli poi raccolti in più di venti volumi).

 

Sto ancora leggendo i Memoranda, e mentre leggo che l’autore si annoia ora di una cosa e ora di un’altra, anche io mi godo il privilegio “dandystico” di annoiarmi del famoso dandy Barbey d’Aurevilly, ammiratore di Byron e di Lord Brummell, sul cui dandysmo scrisse uno studio.

Ma per evitare che questo articolo sia troppo noioso per chi non abbia sotto mano i Memoranda, qualche riga devo citarla. Fin dalle prime pagine ecco l’autore che ha a che fare con una donna: “Lei, credo, fa un po’ la cattiva. Sostenerle che è buona, la deluderebbe; e tuttavia dice il vero quando pretende che in fondo non era cattiva. Il fatto che si convinca che con lei io reciti la commedia, guasta sempre i nostri rapporti quando ci troviamo insieme. Bisogna dunque perdere il proprio tempo in scaramucce. E’ come un incontro di ballo in maschera. Si tendono perpetuamente delle insidie da una parte e dall’altra”. Recita, commedia, ballo, scaramucce, maschera, insidie: c’è in poche righe tutta la materia delle Liaisons dangereuses, nella versione più quotidiana. Socialità come rete di relazioni pericolose. Non è già la “microfisica del potere” di Foucault, francesissimo sociologo?

Ma c’è almeno qualcosa al di fuori di una socializzazione così complessa e insidiosa? Sì, c’è l’Imperatore. Barbey dice che Napoleone “non sapeva conversare. Lui parlava e lo si ascoltava. Vecchia abitudine di padrone”. Dove il potere è accentrato, la conversazione (modalità illuministica di rapporto) è sospesa, è impossibile. Poi Barbey legge l’autobiografia (Poesia e verità) di Goethe e dice che manca di spirito come lo intendono i francesi: “Quest’uomo è un tedesco, sebbene sia un Genio (…) questi diavoli di tedeschi vivono una vita ammirativa e io non capisco come la Critica (a parte le scienze) possa esistere nel loro paese. C’è troppo bisogno di ammirare”.

Osservazione notevole. I tedeschi hanno avuto lo Spirito (der Geist) che trascende e sintetizza la realtà: che si deve ammirare, a cui si può solo ubbidire. Lo spirito in senso francese (l’esprit) invece non ce l’hanno: perché è irrisione, critica, verve. I francesi temono il ridicolo. I tedeschi temono la frivolezza, la poca serietà. E per noi italiani che cos’è lo spirito? Noi non temiamo niente, neppure di avere paura. Questo è il nostro limite. Ma siamo più umani (questo lo dicono tutti).

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