Jean-Luc Godard al Festival di Cannes nel 2001 (Olycom)

1930-2022

I tiktoker sono un po' figli di Godard

Andrea Minuz

Il Maestro al cinema è stato più che un autore, una "funzione", un’idea, una possibilità. E i film contavano il giusto: li trasformò in “gesti”

Quando il cinema era tutto, Godard si convinse che in un film dovevano starci dentro Joyce, Brecht, Sartre, il Libretto rosso di Mao, l’action painting, la lotta di classe, i corsi di sociologia di Aron, i collettivi, i tutorial sulle molotov, l’Algeria, il Vietnam, la pubblicità, il culo di Brigitte Bardot, le fabbriche, le lezioni di fisica, ma sempre ricordandosi dei vecchi Ford, Hitchcock, Fuller, che l’avevano fatto sognare nei cineclub parigini. Se gli spettatori borghesi non capivano, peggio per loro. Segno che non erano pronti per il gran salto del cinema nelle vette del pensiero, della poesia o della “prassi rivoluzionaria”.

 

Da gran marpione qual era, Godard ci credeva il giusto: anche nel furore dei suoi terribili “anni maoisti” venivano prima l’esibizionismo, la provocazione, i flash dei fotografi per “l’Ursula Andress della Rivoluzione”, come lo chiamava Truffaut. In ogni romanzo di formazione cinefila c’è il “momento-Godard”, che è come un’epifania. Può durare una serata, mesi, anni. Nei casi più gravi non ci si riprende più. E’ quella fase in cui l’idea che un film sia una storia ben raccontata con dei personaggi che ci emozionano sembra all’improvviso orrenda, offensiva, un insulto alla nostra intelligenza. Una menzogna, un complotto orchestrato ad arte dal capitalismo e dai poteri forti di Hollywood (a Godard dobbiamo molto, ma anche l’illusione, diffusa in tutte le università e scuole di cinema, che smontare una storia e fare film “contro gli spettatori” sia più difficile o affascinante che farli piangere, ridere, emozionare in massa). 

 

Forse neanche i godardiani hanno visto tutti i film di Godard. Forse anche loro si perdono nella miriade di “131 credits” (secondo Imdb), tra lungometraggi, corti, video, interventi, frammenti, note sparse, distribuiti in sessant’anni di carriera. Tra quelli che ieri hanno commemorato il “Maestro” sui social, in pochi saprebbero indicare tre titoli di Godard a bruciapelo, senza googlare. Perché i film di Godard non erano fatti per essere ricordati. Anche per questo, fioccano sui giornali e nelle bolle cinefile di Twitter, omaggi e rievocazioni di “Fino all’ultimo respiro”, il suo titolo d’esordio, come se poi non avesse fatto altro per sessant’anni. Capita a molti registi di essere ricordati per un solo film, ma raramente è il primo. Perché più che un autore, Godard al cinema è stato una “funzione”, un’idea, una possibilità. E i film contavano il giusto. Li trasformò in “gesti”, performance, provocazioni, saggi critici, estenuanti riflessioni sull’“immagine”, con dentro tantissimi libri, nuche silenziose, intermittenze, lampi, citazioni, teoremi. 

 

Nei beati anni della Nouvelle vague, quando qualcuno gli faceva notare che un film deve avere “un inizio, uno svolgimento e una fine”, rispondeva senza esitazioni: “Certo, ma non per forza in quest’ordine”. Godard, infatti, si può rivedere benissimo a pezzi su YouTube. Non perde nulla. Era già sintonizzato sulla frammentazione, il ripescaggio, la dispersione di immagini e suoni ben prima dell’arrivo di internet. Più di metà della sua filmografia è insostenibile, ma dobbiamo riconoscere che viviamo un tempo dell’immagine che è anche godardiano, con lo smartphone al posto della macchina da presa. I tiktoker che montano video e balletti a raffica non lo sanno, ma sono un po’ anche figli suoi.

 

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