errante

De Maistre e il reportage più innovativo della storia. Il viaggio in una stanza

Marco Archetti

Il gesto letterario di un uomo che credeva nell’immaginazione e nel potere di ogni essere umano di salvarsi da solo. Colui che con ironia ha preso in giro le agenzie turistiche prima ancora che nascessero

"Sotto questa pietra grigia giace Xavier de Maistre, che di tutto si stupiva, domandandosi da dove venisse la brezza e perché Giove tuonasse. Studiò libri esoterici, lesse dalla mattina alla sera, e quando bevve, alla fine, l’onda nera, con grande sorpresa s’accorse di non sapere nulla”. 
Breve epitaffio dell’uomo famoso per aver viaggiato nella propria stanza e che, in realtà, viaggiò per il mondo in lungo, in largo e in alto (il 5 maggio 1784, a ventun anni, con l’amico matematico Louis Brun, dopo aver redatto un Prospectus per sovvenzionare l’impresa, compì in pallone un’ascensione di duemila metri) e che ebbe un’esistenza tortuosa e pienissima: nato nel 1763 a Chambéry, penultimo di dieci figli, fulgida carriera militare, frequentazioni mondane e aristocratiche, amicizia con Manzoni e Saint-Beuve, fu ritrattista di talento.

 

Poi si trovò a Mosca e a Pietroburgo con l’incarico di direttore del museo e della Biblioteca dell’ammiragliato. Nel 1790, poco prima del carnevale, di stanza a Torino in qualità di aiutante maggiore di battaglione, se la prese con l’ufficiale Patono de Meyan, lo sfidò e lo batté in duello – “che c’è di più giusto che scannarsi con qualcuno che vi pesta il piede?” – ma venne messo agli arresti per quarantadue giorni. 
Un po’ lockdown, un po’ l’estate che vorremmo meritarci (quella senza vicini di ombrellone che incombono, senza mesti obblighi festaioli e rodei di spritz e code al traghetto) Xavier, fratello del più noto Joseph, fece di necessità domiciliare virtù erratica. E se è vero che la scrittura è un imbarco come garantiva Gilles Deleuze, il suo Viaggio intorno alla mia camera – riscritto e perfezionato per quattro anni prima del varo definitivo – è una navigazione in piena regola: ben più di una flânerie ma vera e propria esplorazione aeronautica di sé e di tutto il resto alla velocità di crociera di un placido kantianesimo, grazie a essa De Maistre parodiò il viaggio intorno al mondo di James Cook, inventò il reportage più innovativo della storia e si prese gioco delle agenzie turistiche prima che esistessero, con ironia e profondità da poesia in prosa. Il tutto in un centinaio di pagine – siamo nel secolo dell’Enciclopedia – e con l’unico torto, scriverà Anatole France, di non aver mai torto, causa eccesso di saggezza (ma gli riconoscerà “il dono di intenerirsi al momento giusto”).

 

“Il piacere che si scopre a viaggiare nella propria camera” – esordisce De Maistre nel primo dei quarantadue capitoli – “è al riparo dall’inquieta invidia degli uomini e non dipende dalla fortuna. Chi è così infelice o derelitto da non avere un buco dove possa raccogliersi e celarsi al mondo? Tutto qui l’occorrente per il viaggio”. L’ingaggio è di quelli che si ricordano: “Seguitemi tutti, voi che siete trattenuti nel vostro appartamento da una mortificazione d’amore o da una negligenza di amicizia, lontano dalla pochezza e perfidia degli uomini. Gli infelici, i malati e gli annoiati dell’universo mi seguano! Quando viaggio nella mia camera, di rado percorro una linea retta”. Tutte diagonali spezzate, quelle di De Maistre, dalla poltrona al letto – “il teatro mutevole dove il genere umano, di volta in volta, recita drammi commoventi, farse ridicole e tragedie spaventose” – e poi dall’anima alla materia, da una metà all’altra di se stesso, tra il passato e il presente, esaminando quadri e stampe alle pareti e offrendo la penna al ricordo di un amico morto – “una pipa in due nel tumulto delle armi, nelle penose fatiche della guerra” – o alla rosa secca del carnevale precedente. 

 

In un viaggio dal fondo estremo dell’inferno all’ultima stella oltre la via Lattea, “fino ai confini dell’universo, fino alle porte del caos” insieme a Omero, Milton e Virgilio, Xavier de Maistre ci racconta come ognuno, volendo, si salva da solo. Perché è l’io il fondamento dell’universo, il fragile strapuntino esistenziale che sorregge le leggi immutabili e si beve l’infinito, intimo custode del tempo in cui “eravamo felici dei nostri errori”.

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