il libro

Perdersi con Bolaño a Città del Messico

Giuseppe Maria Marmo

L'ultima pubblicazione di Alessandro Raveggi prova a descrivere il caos della “megalopoli dell’apocalisse”, imperscrutabile e misteriosa

Città del Messico è un coacervo di vie, un’infinità di strade caotiche che si intrecciano e separano in modi misteriosi, incomprensibili. Alessandro Raveggi, nel suo ultimo libro A città del Messico con Bolaño, edito da Giulio Perrone Editore, prova a descrivere attraverso mappe sovrapponibili il caos di questa megalopoli. La sfida è ambiziosa, e dalla scrittura di Raveggi è chiaro fin da subito il voler sottolineare l’impossibilità delle mappe di riportare il territorio. L’autore mette dei cardini, traccia delle linee guida, ma la scrittura, così come la capitale messicana, scivola via continuamente. C’è sempre un non detto, un incomprensibile mistero che si estende e protrae in quel territorio ambiguo che si sviluppa tra crudeltà, concretezza, misticismo e fantasia.

Città del Messico è quindi “un’impossibile nostalgia”. Come in molte megalopoli, ogni scelta, ogni strada percorsa lascia un vuoto, e cela in essa tutte le possibilità interrotte di scoperte mancate e sospiri sospesi. Il caos cittadino ha le sembianze di un’apocalisse imminente, una fine differita che incombe in potenza.

Il libro in tutta la sua letterarietà pare essere uno studio etnografico più che topografico. La capitale messicana “con la possibilità di una bellezza assoluta subito infranta” pare vivere di vita propria. Ospita gli abitanti e i turisti con una certa clemente impazienza senza mai accettarli davvero. I suoi spazi sembrano avere una sorta di forza primigenia capace di influire sulle azioni degli uomini. Ecco perché il Virgilio di Raveggi in questo viaggio tra i ricordi non poteva che essere Bolaño; la sua spiritualità, la sua visione del Messico, è onnipresente, anche se spesso appare solo in filigrana. Il leggero, non curante, vivo dramma cittadino è descritto come un disturbo schizoide. Il frutto naturale dell’antimateria messicana che ha nella capitale il suo culmine. L’unico modo per visitare davvero Città del Messico  è perdersi sulla superficie di quelle strade asfaltate che nascondono “inframondi” di fiumi sotterranei e cimiteri subacquei.

Persino il cibo è una sfida alla comprensione in Messico. Una vera esperienza allucinatoria. E’ il boccone che “ti cambia digerendoti” così come è la città che vive accogliendoti. Il messicano mangia con ritmo, continuamente, senza sosta. Il rumore delle mascelle in masticazione è un suono costante che guida il viaggiatore, mentre anche lui a sua volta cammina masticando. Una fame che, accompagnata dalla difficoltà di trovare acqua potabile all’interno della città matrigna, pare essere una vendetta nei confronti degli uomini usurpatori di spazi.

Città del Messico è per questo, come scrive Raveggi, la megalopoli “dell’apocalisse in transito”. Le piaghe cittadine si ripetono ciclicamente tra una pausa salvifica e l’altra su un’umanità festosa e resistente, composta da donne in rivolta, intellettuali avvinazzati e “diavoli creativi della vendita al dettaglio”. “Il Messico è una tragedia senza battute” e la sua capitale è una città-fortezza, un abisso che ti trattiene attraverso un amore doloroso e vivo fatto di terre funeste e incantate folgorazioni.
 

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