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idealizzati

Il mito ucraino. Tra passerelle e fronti di combattimento

Fabiana Giacomotti

L’artista Olesia Trofymenko alla sfilata di Dior, e una scoperta: stiamo cristallizzando il conflitto nell’aura letteraria. Ecco che cosa non va

Cinque mesi di immagini di guerra e di devastazione in Ucraina devono aver lasciato il segno anche in noi che abbiamo la fortuna di temere giusto per la tenuta dei nostri condizionatori in questa estate caldissima, per cui, quando mi trovo davanti l’artista Olesia Trofymenko nel backstage della sfilata Dior Couture al Musée Rodin di Parigi bella, altissima, truccata, vestita con un abito stampato maison, borsa Lady Dior produzione limitata al braccio, ho un sincero moto di stupore. Nel mio immaginario, questa quarantenne di molte fortune artistiche doveva avere l’aspetto della profuga, lo sguardo corrusco o, ancora, l’aria emaciata. Doveva, insomma, essere in linea con la narrazione, con le donne in tuta rosa, la giacca a vento e i bambini in braccio che vediamo in televisione e di cui ci raccontano i colleghi inviati, en pendant anzi matchy matchy, come si dice adesso nell’ambiente dove ci troviamo, con quelle immagini e quelle descrizioni.

 

Come è giunta a Parigi? “Be’, in aereo, no?”. Sorrido imbarazzata, gli spazi aerei sono chiusi: poi scoprirò che è arrivata in treno fino in Polonia

 

Invece, volendo, Trofymenko potrebbe prendere posto in fila con le modelle che aspettano di uscire in passerella, insieme con le altre top ucraine che non hanno più lasciato l’Europa dell’ovest dal 24 febbraio, con le tante ucraine che qualche giorno dopo troverò a decine a Montecarlo sdraiate in spiaggia mentre i mariti non mollano mai lo smartphone e aprono le bottigliette di birra con i denti come in un film di Tarantino e mi verrà da pensare a Manzoni e agli stracci che, solo loro, vanno sempre all’aria. Olesia Trofymenko, infatti, trasecola quando le chiedo come sia giunta a Parigi: “Be’, in aereo, no?”. Sorrido imbarazzata, non oso domandare con quale volo visto che gli spazi aerei sono chiusi da febbraio: più tardi scoprirò che è arrivata in treno fino in Polonia, dove è in effetti montata su un aereo per Parigi. La tratta ormai consueta, ma non per questo priva di rischi. 

 

Torno col pensiero a quando, lo scorso aprile, si aprì la Biennale e al centro dei Giardini comparve l’installazione “Piazza Ucraina” di Borys Filonenko, Lizaveta German e Maria Lanko, costruita sopra una distesa di scorza e di colonnine di legno sopra le quali erano affisse le opere degli artisti che non avevano potuto o voluto lasciare il paese riprodotte in fotocopia. Si sostava in silenzio reverenziale e solidale, nascevano dibattiti spontanei con gli altri visitatori, ci si sentiva coinvolti, per quel poco ma con passione, con quegli artisti che avrebbero dovuto essere lì e invece. Invece, Olesia con il suo sguardo fiero e il suo cattivo inglese.

 

Dirlo adesso suona cinico, ma non ci sono dubbi che, di questi tempi, l’artista ucraino si porti parecchio, e non solo nella moda

 

Ormai da qualche anno, mi racconta, si è data al film making e in queste settimane sta raccogliendo immagini della guerra e dello stato dell’arte e degli artisti in Ucraina. Per Dior ha realizzato una serie di pannelli attorno al tema dell’albero della vita, simbolo e motivo principe del folklore mondiale da millenni, così come la tradizione del dipinto ricamato, praticata dall’India al centro Europa (per restare in tema di Biennale e di artiste del tessile, consiglio caldamente il padiglione polacco con la rivisitazione in grandi pannelli patchwork ricamati degli affreschi rinascimentali di Schifanoia realizzati da Malgorzata Mirga Tas, straordinaria artista di origine rom già premiata a Berlino, a mani basse la migliore), ma anche in Italia, in particolare fra le artiste a cavallo fra l’Otto e il Novecento, basti pensare ad Alma Fidora e a tutte le avanguardiste del Futurismo. Qualche tempo fa, Olesia Trofymenko espose una sua piccola opera al Maxxi e con questa colpì l’immaginazione di Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica di Dior, che per queste cose si affida molto al gusto delle curatrici indipendenti Paola Ugolini e Maria Alicata. Ne è nata una “bella collaborazione”, dice Trofymenko, per la sala sfilata sul tema della vita, l’idea “della continuità e di un avvenire felice” e sul quale gli abiti bellissimi, al tempo stesso austeri e aggraziati, talvolta tessuti a mano da giovani artigiani francesi in pezze da sessanta centimetri come in epoca pre-industriale, spiccavano in perfetta armonia. 

 

E ne è nato anche un bell’argomento mediatico. So bene che dirlo adesso suona particolarmente cinico, ma non ci sono dubbi che, di questi tempi, l’artista ucraino si porti parecchio, e non solo nella moda. Alla presentazione del nuovo programma del Teatro alla Scala per la stagione 2023, i presenti scorrevano con attenzione l’elenco dei cantanti, dei direttori e dei titoli delle opere alla ricerca di un impossibile e un po’ ridicolo bilanciamento fra opere russe (come noto, il 7 dicembre si aprirà con il “Boris Godunov”) e artisti ucraini, spesso impossibili da identificare con il solo nome, oppure di oriundi modello Cajkovskij. “Ma questo è ucraino?”, domandavano al vicino, contando in uno spunto in più per l’articolo e per suscitare l’interesse del lettore, farlo sentire parte di un ambiente culturale ricco e variegato che accoglie, aiuta e accorpa l’umanità nell’espressione elevatissima dell’arte.

 

L’Ucraina è il nuovo orizzonte di un universo culturale che avevamo snobbato fino a ieri e di cui ignoravamo anche i tratti più comuni. Quando, alla presentazione ristretta della collezione che avrebbe sfilato poco dopo, Chiuri ha ricordato come Sonia Delaunay fosse ucraina di Odessa (Delaunay era notoriamente il cognome del marito, Robert, lei era nata Terk), fra i moti di stupore dei presenti si mescolava palpabilmente anche una certa soddisfazione. C’erano altri argomenti per scrivere, altre giustificazioni culturali per trovarsi lì, per non sentirsi fuori posto ma anzi attivi, partecipi, anche se scioccamente immaginiamo che tutti lascino l’Ucraina in auto o a piedi oppure che la percorrano in treno come il premier Draghi perché questo leggiamo e vediamo, mentre è ovvio che quella grossa comunità di ucraini di stanza a Montecarlo da febbraio ci sia arrivata con l’aereo privato. 

 

Il dato interessante è però ancora un altro. In queste ultime settimane abbiamo iniziato a trasferire, lentamente ma con costanza, il nostro interesse cronachistico per l’aggressione russa all’Ucraina alla dimensione eroica della letteratura. Per certi versi, il conflitto va inscrivendosi nell’aura mitica dell’Odissea e della battaglia delle Termopile, di prossima raffigurazione su un cratere che le generazioni a venire vedranno esposto in un museo. Non siamo solo provati e via via sempre più disinteressati alle notizie che giungono dal fronte del Donbas, come è evidente dal progressivo scivolamento del tema a pagina 6 dei quotidiani e presto sarà la 10 perché il dibattito interno si è fatto di nuovo pressante, un’evoluzione che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva ampiamente previsto essendo il bravo comunicatore che è.

 

Il punto focale è che andiamo circoscrivendo un argomento di cui ci sfuggono i contorni e di cui in realtà temiamo l’escalation, minacciata ogni giorno dalla Russia, riportandolo alla storia o, meglio ancora, alla mitologia, alle grandi epopee eroiche, appellativo di cui, non a caso, abbiamo subito rivestito i combattenti ucraini, anche quelli un poco scomodi come i combattenti ultra-nazionalisti del battaglione Azov. La cultura e la storia sono temi che in qualche misura possiamo gestire da soli. E allora i combattimenti nel Donetsk diventano la battaglia di Balaklava dove, anche lì e ce lo dicono appunto i libri di storia del liceo, “l’esercito russo era significativamente più numeroso di quello degli alleati, ma era ostacolato da una cattiva disciplina, cattivi comandanti e armi inferiori”. Ecco, non è quanto vediamo accadere adesso? Ed ecco che subito ci sentiamo pronti a tracciare paragoni, a valutare, a dire la nostra. 

 

Una visita alla vecchia Bibliothèque de l’Arsenal, parte della Bibliothèque Nationale de France, mi ha convinto che anche in Francia si viva la stessa evoluzione estetica del conflitto o comunque che la si favorisca. All’ingresso della splendida sala lettura, è disposto infatti in una pila ordinata un libretto ciclostilato e datato maggio 2022 di “Bibliografia selettiva all’Ucraina nelle collezioni della BnF”. Non sono moltissime pagine, circa sessanta, insomma un’inezia se si pensa alle raccolte sulla Gran Bretagna, per esempio, o sull’Italia che, ho fatto una rapida ricerca, supera le cinquecento pagine del catalogo online come sola referenza generica. Sono ordinate per temi, che suonano parzialmente come una giustificazione (del genere “qui non siamo impreparati, anzi”) e in parte e davvero come invito alla lettura e all’istruzione: “contesto storico e politico”, “letteratura”, “architettura e belle arti”, “musica”, “l’Ucraina nei fumetti” (accidenti, oltre cinquanta referenze), “linguistica”, e ancora fotografie, manoscritti, cartografia, giochi elettronici e multimedia (però, quanto si è evoluta la BnF), scritti in francese, inglese, ucraino, russo, greco antico e moderno e latino. Buona parte dei testi si trova su gallica.fr, la rete digitale della BnF per cui, volendo, si possono consultare stando a casa, e tutte le voci dei grandi cantanti ucraini che hanno attraversato la storia della musica lirica, nomi davvero mitologici come Solomija Krushelnytska (o Kruceniski), viareggina di adozione e prediletta da Giacomo Puccini che le affidò la seconda versione della “Butterfly”, a cui era intitolato il teatro di Leopoli.

 

Il disinteresse sempre maggiore per le notizie dal fronte, il progressivo scivolamento del tema a pagina 6 dei quotidiani e presto sarà la 10

 

E’ singolare e straordinariamente utile leggere la storia di un popolo attraverso la sua bibliografia, autoctona e no. Quello che esce da queste pagine, illustrazioni comprese, è una parabola di lotte e di battaglie per l’affermazione e la libertà. Una guerra continua per smarcarsi dalla “periferia” o “confine” – è questa l’origine della parola “Ucraina” in antico slavo orientale, un po’ come le Marche – e raggiungere lo status autonomo che le è sempre stato negato, prima dai mongoli e poi dai polacchi, dall’impero austro-ungarico, da quello ottomano e, ovviamente, dalla Russia in tutte le sue successive declinazioni. Ed è attorno a questi temi che si dispiega non solo la sezione bibliografica storica, ma anche quella letteraria: molto Taras Shevchenko o “Kobzar” cioè bardo in ucraino, il cantore delle epiche gesta ucraine sia in poesia sia in pittura; molto Ivan Franko, generazione precedente, obiettivi e ispirazione simili; un po’ di contemporaneo con Serhij Zadan, autore nel 2009 della “Strada del Donbas” che tanti, adesso, sono andati a cercare in libreria.

 

Non vogliamo guardare all’Ucraina di oggi, ma a quella di ieri. Preferiamo vederlo come un paese lontano, flagellato da ogni genere di disgrazie

 

C’è invece molta fiaba, molte raccolte di racconti folkloristici, molto del genere “albero della vita” ricamato sui vestiti.
Non vogliamo guardare all’Ucraina di oggi, ma a quella di ieri, qualunque sia stata, e se è impossibile stabilire, da questa parte dell’Europa, se quanto scegliamo dell’Ucraina per le nostre biblioteche sia davvero rappresentativo della produzione libraria e di pensiero autoctona, certo è che tutti preferiamo vederlo come un paese per certi versi arcaico, lontano, flagellato da ogni genere di disgrazie, ancorato alle proprie tradizioni. L’Ucraina, per esempio, ha molti cantanti e musicisti pop, alcuni di grande successo oltreconfine come Assia Ahhatt o Gaitana. Eppure, nelle acquisizioni dell’ultimo quinquennio risultano “17 popular Ukrainian dances”, “Fly sorrow fly”, un nome un programma dei Mournful Gust, gruppo gothic strumentale, “Qualche verso in ucraino arcaico” del gruppo vocale Drudkh, la “conférence de Nicolas Werth”: “La grande carestia in Ucraina del 1932-33. Il più grande crimine di massa del socialismo”. I film catalogati variano dal sacrificio personale e collettivo alla vita militare, al culto degli antenati. Ci sarà sicuramente da qualche parte, se conoscessimo la lingua forse sapremmo scegliere da soli senza attendere le traduzioni, ma è evidente che dall’Ucraina, e non da oggi, non vogliamo né ci aspettiamo mai una gioia, insomma. E anche su questo punto, varrebbe la pena di riflettere.

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