Elaborazione grafica Enrico Cicchetti

La sfida di Giampaolo Barosso a quest'epoca senza linguaggio

Marco Archetti

“Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa” dello scrittore piemontese, è stato ripubblicato dopo quarantacinque anni. Un libro che è un viaggio picaresco (e anche donchisciottesco) nei meandri di una lingua impraticabile e squisita

Giampaolo Barosso fumava tabacco Amphora, detestava le cose vecchie rimesse a nuovo, prendeva sul serio Parmenide come nemmeno Emanuele Severino e gli riuscivano sintesi straordinarie tipo: “Rinascimento: la distanza più breve tra due punti è definita da una retta; Barocco: la distanza più breve tra due punti è definita da una curva; Settecento: dalla curva spuntano i fiorellini; Neoclassico: fiorellini seccati, la curva cerca pesantamente di tornare retta; Otto-Novecento: un po’ di tutto, cioè stemmi, statue, fastigi, fronti, frontali, frontoni, portali, portoni (albero decorativo più insistito, la palma); Anni Venti: l’epoca d’oro delle villette; Anni Trenta: monumentalismo dittatoriale e caseggiati da incubo; Anni Quaranta: porticatoni squadrati, altissimi; Anni Cinquanta: speculazione edilizia, tapparelle; Anni Sessanta: speculazione edilizia mascherata da quartieri giardino; Anni Settanta: speculazione edilizia mascherata da quartiere satellite autosufficiente; Anni Ottanta: speculazione edilizia mascherata da crisi edilizia). Nato nel 1937, è stato ricercatore al Centro di cibernetica e di attività linguistiche all’università di Milano, e sceneggiatore per Topolino. A trentotto anni si è trasferito in campagna, si è appuntato sulla camicia (a quadri) la coccarda della stima di Giorgio Manganelli e si è dedicato alla scrittura di testi eterogenei di ironia fenomenale, che si possono leggere sul suo sito.


Ma chi era Giampaolo Barosso? Senza dubbio uno scrittore faloppo, papasso della prosa ironica, una succumedra della maramalderia, non un magio, non un eustrònzilo fra i molti del mondo cosiddetto culturale, non un mannarino delle squisitezze ma un vero e proprio marangone della parola d’alta fattura. Ecco, queste bellissime parole strane, questi fantasmi che vengono in qua dal proprio al di là lessicale, erano tutte parole sue, o meglio, parole che lui aveva raccolto, con quel gusto non antiquariale ma rigenerativo e comico, nel “Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa” (250 pp., 18 euro), che l’editore Elliot, con la spericolatezza di sfidare un’epoca senza linguaggio, ripubblica dopo quarantacinque anni. Un libro che è un viaggio picaresco (e anche donchisciottesco) nei meandri di una lingua impraticabile e squisita, remando con ironia e risalendo correnti etimologiche, cavalcando destrieri in disuso, citando e controcitando, seminando proverbi, distorcendo voci colte e rattoppando quelle popolari, ricuperando e rispolverando, battagliando con l’ovvio e saltando nel cerchio di fuoco. Il bello è che le parole riportate alla luce dal Barosso, fradicie dei sargassi dell’inutilizzo e cieche di oblio ma immediatamente pronte a crepitare come mortaretti, sono parole che esistono, non costruzioni di fantasia. E vivono nelle profondità della nostra lingua, una lingua ricca di 150 mila termini contro i 30 mila scarsi che usiamo. Ma a che scopo dare spolvero a qualcuno dei 120 mila che restano? All’unico ormai interessante: non farsi capire dai più, obbedendo a seduzioni di cui non dover rendere conto. Poi magari si può anche adottare una parola e usarla, godendosi lo sgomento degli uditori, del resto le parole è così che si rimettono al mondo – giocandoci, ridendo. La preferita del sottoscritto è “dimergolare”. Significa: “Tentennare un chiodo per assicurarsi se è ben piantato, provocando tracollamenti d’intonaco”. Ed ecco che certe tragedie domenicali hanno finalmente un verbo.

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