(foto di Paz Arando su Unsplash)

La saggezza del grano

Antonio Pascale, “La foglia di fico” e una meravigliosa ricerca vegetale del senso della vita

Giuliano Ferrara

Un lavoro straordinariamente irriverente, scritto in modo piano e musicale, rispettosi solo del disordine e della bellezza cercata per ogni dove, attraverso il contatto con le piante

Il poeta T. S. Eliot all’inizio del secolo scorso lavorava in banca, e più o meno di questi tempi cento anni fa raccontò in un poema immortale la desolazione della terra votata alla tecnica e alla guerra, e la raccontò nel mito e nella vita quotidiana di una metropoli come Londra, aprile è il più crudele dei mesi, mescola memoria e desiderio, genera lillà da terra morta eccetera; lo scrittore Antonio Pascale all’inizio di questo secolo lavora al ministero delle Politiche agricole e forestali, e racconta la vitalità della terra con l’unicità ironica della natura umana, sostenuta da quell’Atlante che è la tecnica, la domesticazione faustiana del grano, io ti faccio riprodurre e tu mi nutri, con conseguenze varie, e abita anche lui nella memoria e nel desiderio, nel mito di Demetra e Persefone, nella botanica delle passioni, tra le piante e le graminacee della nativa Caserta e del Matese, poeta vero e narratore e saggista senza illusioni. Il suo ultimo libro deve obbligatoriamente vincere tutti i premi del mondo, salvo quello al liquore, perché “La foglia di fico” è meraviglioso letteralmente, suscita meraviglia, incanto, istruisce, diverte, commuove e dà un tono discreto e razionale alla famosa ricerca, notoriamente impossibile, del senso della vita.

 

Pascale sente che la felicità, parlando con pardon e understatement di un’idea inafferrabile, è attraversare una pineta, possibilmente a piedi nudi, urticandosi con gli aghi, e arrivare al mare. Glielo suggerisce un’infanzia, poi un’adolescenza casertana piena di periferia, di fango e asfalto, di prospettive selvatiche, di bambine e di donne, di vecchi e vicini di casa, illuminata da un padre anche lui funzionario dell’agronomia, da un nonno paterno che muore in pace masticando la mollica del pane e guardando il cielo, dai riti di iniziazione dell’umanità e suoi personali di maschio meridionale civilizzato e femminilizzato da una cultura originale, universale ma esclusiva, quella delle piante. Che sono molto di più degli idoli verdi di oggi, garrule bandiere, sono oggetti poetici e insieme pretesti storico-preistorico-lirici, e scientifici, come il cactus, il faggio, il ciliegio, il tiglio, il pino, gli agrumi, l’olivo, la quercia, il leccio, il fico.

 

L’assemblaggio di nozioni, ricordi, storie, sensibilità, impulsi, ritratti, caricature, fatto di arabeschi disincantati ma allegri e di autofiction, come si dice adesso, è un’enciclopedia dell’innocenza e della maturità del mondo. Purtroppo per lui, Pascale ha molte cose da dire, molto da raccontare, molta verve e nessuna vanità, per di più non è un “cretino pieno di idee” ma un letterato un poco russo, tipo il Turgenev delle “Memorie di un cacciatore”, che abita un suo mondo di spunti, di contraddizioni autoironiche, altro che idee, come si può abitare un bosco, un manuale, una teoria, uno sterrato, uno stagno, un covone di farro, una famiglia, una lingua limpida e un dialetto da sballo all’ombra e in compagnia degli alberi e delle spighe ben accestite. (A proposito. Con la guerra il grano è tornato. Non parte, non sfama, giace o è saccheggiato dall’invasore. Pascale, perduta la strada nel Matese, cerca una luce e trova un forno notturno che gli vende un chilo di pane e lo rimette in cammino. A pagina 260, in apertura di un racconto saggio fenomenale, in cui spiega le intermittenze del cuore e le ragioni di testa di tutto il suo lavoro letterario, e altro, alla scoperta del forno, scrive: “Nel mondo c’è sempre qualcuno che fa il pane, mi sono detto. La terra gira, si rivolta, combatte, si riappacifica, e c’è comunque uno che di notte prepara il pane”, “Noi Sapiens e il grano siamo indissolubilmente legati: se vogliamo capire la natura umana è necessario parlare del grano”).

 

Dico “purtroppo per lui” perché questo e altri suoi libri straordinariamente irriverenti, scritti in modo piano e musicale, rispettosi solo del disordine e della bellezza cercata per ogni dove, intolleranti con aspro gusto di ogni conformismo e compiacimento, sono radicalmente diversi dai tinelli e dagli intimismi e dagli ombelichi e dai commissari che popolano con supponenza le vette merceologiche del venduto. Lui ne scherza con finezza, con malinconica classe, e alla fine di quasi trecento pagine indimenticabili si fa dire da una sua consulente grecista (sono quasi sempre donne le sue consulenti): “Lascia stare Demetra e Persefone – mi diceva – che ti portano fuori strada, che già fai fatica a stare in carreggiata, sempre alla ricerca del senso della vita. Anzi – ha concluso – spero proprio che lo trovi prima o poi, magari ti esce un giallo e finisci in classifica e quelli sì che sono passaggi, mica solo simbolici, quelli ti cambiano la vita, eh”.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.