identità

Lo scontro sano svela le differenze, la guerra le nega. La lezione di De Certeau

Giuseppe Maria Marmo

Michel de Certeau ci spiega che è solo nel conflitto con l'altro che ci riveliamo come diversi rispetto a ciò che è altro. Un confronto che la violenza nega e disconosce

"Non sporgerti”, grida preoccupata la madre al bambino curioso che cerca di scrutare cosa c’è oltre il parapetto. Un confine come un altro, una linea che al di là cela tutta l’alterità possibile e il desiderio di sperimentare, di capire cosa c’è oltre. La voglia, come direbbe Michel de Certeau, “di non fermare il cammino e che, con la certezza di ciò che gli/le manca, sa di ogni luogo e di ogni oggetto che non è questo, che qui non si può risiedere né accontentarsi di quello”. Perché il desiderio crea sempre un eccesso, che per l’appunto non abitando da nessuna parte va oltre e perde i luoghi.

 

In questi giorni una nazione, la Russia, ha deciso di oltrepassare il proprio confine per occupare, attaccare, quell’alterità che arbitrariamente ha deciso di non voler riconoscere. “La violenza segnala che si è oltrepassata una soglia”, scrive De Certeau nel 1969 in Lo straniero o l’unione nella differenza, una raccolta di saggi con un elemento teorico comune: l’apologia della diversità. Le differenze, osserva l’intellettuale francese, sono sempre irriducibili e ogni pretesa di conoscenza o occupazione è vana. Eppure in ogni epoca, città, paese, famiglia c’è chi sente il bisogno di assoggettare, di appropriarsi dei luoghi altrui, che siano nazioni o emozioni, che in nessun modo possono appartenergli. E’ un problema comune che a volte prende corpo anche solo accidentalmente e che nell’atto della guerra ha il suo più tragico culmine. 

 

Ormai vittime di quel dispositivo di pensiero che ci porta a voler dare un nome a tutto, sentiamo il bisogno di schematizzare, organizzare e classificare in una ben precisa tassonomia persino ciò che non riusciamo a comprendere: e infatti, convinti di stare nel giusto, di detenere le chiavi della verità, abbiamo la stupida pretesa di ridurre l’alterità – che è sempre inconoscibile – alla nostra soggettività. Ma alla base del rapporto con l’altro non c’è la conoscenza, come si è portati a credere per una facile illusione, ma l’opposizione. “Non si vive senza gli altri – scrive De Certeau – ciò significa che non si vive senza lottare. Gli uomini sono in conflitto proprio perché non sono dèi: da ognuno di loro non dipende tutto, ma solo quello”.

 

Lo scontro – se inteso come messa in discussione della propria soggettività – è però utile perché rivela la diversità connaturata in ognuno di noi. Dà la possibilità di vedere le nostre fragilità e di comprendere che siamo “solamente un particolare fra molti altri”. “Io è un altro”, diceva Rimbaud; noi siamo quella terza persona singolare perché l’unico vero modo per combattere la malattia identitaria è essere, sentirci, stranieri a noi stessi. E come riportato dall’intellettuale francese in La scrittura della storia: “L’identità non è uno, ma due. L’uno e l’altro. All’inizio c’è il plurale”. E quell’altro deve essere cercato continuamente con la stessa spensieratezza del bambino curioso che si sporge incosciente verso ciò che non sa, con la stessa voglia di scontrarsi con l’alterità più grande: quella che celiamo a noi stessi.

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