la fusione

La guerra e la mostruosa fusione di cancel culture e troll culture

Guido Vitiello

Alcuni intellettuali di un’estrema sinistra ultra-elitaria e quasi esoterica hanno finalmente trovato un popolo da guidare, si tratta quello della destra populista più arrabbiata e complottarda

Da quando la pandemia, e nel suo strascico la guerra, hanno costretto tutti a ballare al loro ritmo capriccioso, capita di assistere alle più spettacolari quadriglie. Coppie mal assortite di ballerini si cambiano e ricambiano di posto; e anche se le tinte dominanti dei loro costumi sono rosse e brune, si tratta di coreografie improvvisate, nate nella scalmana della danza: per capirle non giova a molto ricostruire la storia del nazionalbolscevismo dai tempi di Weimar a quelli di Limonov, basta osservare con attenzione i passi, le figurazioni, le giravolte e gli occasionali capitomboli. Accade per esempio che, dopo un lungo celibato politico, alcuni intellettuali di un’estrema sinistra ultra-elitaria e quasi esoterica abbiano finalmente trovato un popolo da guidare nella danza – un popolo vero, non la chimera post-operaista della “moltitudine” – e che questo popolo, ma tu guarda il destino ballerino, sia quello della destra populista più arrabbiata e complottarda. Dubito che intorno a questa strana intesa, temprata nella lotta ai vaccini, al green pass e ora all’ortodossia bellicista, possa cementarsi un qualche “blocco storico”, ma qualcosa mi dice che al cimitero degli inglesi a Testaccio il cinereo Gramsci passa notti d’insonnia e d’angoscia.


Mentre i Commissari al Dubbio e alla Precauzione suonano il piffero alla reazione, però, non sanno di partecipare a una coreografia più vasta, che si danza al di qua e al di là dell’Atlantico. Sono infatti i più famosi esponenti locali di una figura emergente: il troll progressista. Sotto i nostri occhi divertiti e un po’ allibiti, s’intravedono i primi passi di un altro scambio di coppie. Quali? Jonathan Rauch, in La costituzione della conoscenza (appena pubblicato da Castelvecchi), ha descritto una coreografia semplice e ferale, i cui ballerini sono la cancel culture e la troll culture. La cultura della cancellazione, dice Rauch, si serve del conformismo coatto, delle liste nere e della coercizione sociale per imporre i propri punti di vista come unici ammissibili in società; il trollismo viceversa usa il caos, la disinformazione, i fatti alternativi, le teorie del complotto e le pseudo-realtà per “inondare la zona di merda” (l’elegante metafora è di Steve Bannon) così da rendere irrilevante la distinzione tra verità e menzogna. Se la cancel culture attecchisce nella sinistra elitaria dei ballets de cour, affollati di debuttanti accademici, la troll culture è appannaggio delle contraddanze plebee della destra populista; e se sulla scena i ballerini duellano in un’aspra pantomima, al dunque cooperano coreograficamente nell’aggravare la “crisi epistemica” dell’occidente, minando il modo in cui le nostre società danno forma alla conoscenza. 


Il libro di Rauch è del 2021, ma la danza degli eventi è così animata da avere già un po’ ingarbugliato lo schema. Le cronache degli ultimi mesi ci dicono che certi conservatori americani si stanno invaghendo un po’ troppo degli stili della cosiddetta cancel culture, mentre nelle lande della sinistra occidentale, con l’occasione della guerra ucraina, mette radice quella pianta infestante della troll culture che era stata il dono di nozze di Putin a Trump e ai partiti vassalli europei. Ora, che alcuni conservatori americani stiano riscoprendo il loro contegno censorio dopo la sbronza anarcoide della alt-right non può stupirci più di tanto. Oltretutto, non hanno neppure bisogno di scimmiottare la sinistra accademica o di prendere a prestito la sua impacciata armatura teorica fatta di “violenza epistemica”, “microaggressioni” e words are violence: tutto ciò che gli occorre è riallacciarsi a tradizioni abbastanza recenti come quella dei movimenti antiabortisti, con i loro boicottaggi, i loro ostracismi, le loro intimidazioni e il loro panico morale – il precedente più riconoscibile di una cancel culture di destra. Più inquietante è che la guerra stia inoculando massicciamente in certe frange della sinistra accademico-giornalistica il virus del trollismo, della confusione artefatta e deliberata, del dubbio sistematico sulle più lampanti verità di fatto (gabellato però per complessità e pensiero critico), dell’esasperante slittamento da un piano all’altro del discorso pur di non posare mai una pietra su cui possa edificarsi un dialogo sensato. Nel dibattito italiano l’emersione del troll progressista è più vistosa che altrove: accanto ai soliti mestatori delle nostre Breitbart di provincia e ai soliti retequattristi e lasettisti invasati, infatti, spuntano come funghi intellettuali dal pedigree accademico o editoriale impeccabile che si prestano a intorbidare le acque, a rilanciare le contraffazioni di Mosca, a sfinire gli interlocutori con obiezioni cavillose e pedanti, a insinuare dietrologie fantascientifiche, neppure fossero tutti posseduti dalla buonanima di Giulietto Chiesa, l’uomo che dopo il crollo del Muro aveva trasformato a una a una le sue antiche impuntature ideologiche in altrettante ossessioni paranoidi. Anche in questo caso, tuttavia, c’è poco da stupirsi. Se la formula del comunismo era i soviet più l’elettrificazione, quella del trollismo è la propaganda post-sovietica putiniana (che non mira a inculcare una verità ufficiale, ma a distruggere l’idea stessa di verità) più l’idrante dei social network, usato per “inondare la zona di merda” e sommergere i resti del dibattito razionale sotto un diluvio di menzogne, manipolazioni, fattoidi, dicerie e congiure. 


Il nostro cedevole argine era da dieci anni sotto il getto degli idranti lutulenti del Cremlino, a cui interi partiti, movimenti, associazioni, pensatoi, giornali, riviste e programmi televisivi hanno prestato solertemente le loro prolunghe e le loro cisterne. E il muro, già infiltrato da decenni di stillicidio della propaganda antioccidentale, ormai è completamente marcio. Per questo è venuto giù il 24 febbraio al primo colpo di cannone.

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