Billy Wilder (LaPresse) 

Billy Wilder, già reporter e ballerino scatenato prima che regista geniale

Ginevra Leganza

"Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre" è un libro che mette insieme racconti e commenti di un ragazzo che ha un sogno più antico del cinema: il giornalismo. E un'ironica teoria: bisogna farla finita con l'oggettività borghese, con quel garbo deleterio

Più delle statuette degli Oscar contavano le comparse del suo nome nei cruciverba del New York Times. Diceva così Billy Wilder alla fine della sua esistenza. Di tutte le pellicole forse la più spassosa. Ultimi motti impertinenti prima del final cut alla sua commedia. Ma brillanti si nasce, mica si diventa. 

Wilder era Wilder ancor prima di diventare Wilder. Lo ripeteva a suo tempo la signora Audrey, seconda moglie del regista. E lo prova oggi Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre (La nave di Teseo, pp. 272, 20 euro). E’ un libro, questo, che mette insieme racconti e commenti di un regista già scrittore. E se le parole crociate sul New York Times lo estasiavano tanto, era per via del primo amore che mai si dimentica. C’era un sogno ben più antico del cinema. Il giornalismo, appunto. 

Siamo nel pianeta dell’editoria germanofona. Il ragazzo si arrabatta come può poco prima di fuggire dall’Europa micidiale. Nel 1934 scappa alla volta degli Stati Uniti. Promesso sposo del successo, in tasca ha poche decine di dollari. Ma nei ruggenti anni Venti – e nel ruggito dei suoi vent’anni – si allena nel tiro a segno dell’ironia. Certo predisposto al sarcasmo dal sangue ashkenazita. Comincia così l’apprendistato che lo porta dalla Galizia a Vienna e da Vienna a Berlino, dove si fa le ossa in veste di ballerino e reporter scatenato. E’ il 1927 e sui giornali tedeschi compare un lungo articolo, una storiella costellata di fulmini e arguzia. Per pagare gli arretrati dell’affitto, il giovane Billy balla all’Eden Hotel. E racconta i segreti del suo lavoro. Sullo sfondo espressionista dell’albergo il giovane svolazza di dama in dama. “Qui nessuna donna fa tappezzeria” gli dicono. E lui, serio e giocoso, diventa psicologo e maieuta. Danza con tutte. Belle, brutte, gonfie, piatte, nane, giraffe. Già a Vienna si cimentava nell’inseguimento al Prater di ben altre menadi danzanti. In questo caso ballerine professioniste, le inglesissime Tiller Girls. 

Billy è discepolo devoto ai giornali e a quell’arte concisa che lo allena nei lampi dell’ironia. Un’arte che si tonifica bevendo birra nei bar, ascoltando i dialoghi nei caffè di Vienna e Berlino. Quei caffè che troppo spesso cambiano arredamento. E la colpa è tutta delle mogli dei proprietari, dice. Le signore si curano poco dello spirito e degli sketch impressi nelle pareti dei locali. E così smantellano tutto.

Proprio in un certo Romanisches Café, tempio di artisti a Charlottenburg, il regista scrive sui tovaglioli la sceneggiatura di Uomini di domenica. Adesso Wilder è nella città fantastica specchiata nel fiume Sprea, la capitale che a Mark Twain ricorda Chicago. E in questi anni prima della fuga è una trottola spudorata. Intervista, racconta, annota, inventa battute. Segue l’incanto delle note di Paul Whiteman e trova nel jazz l’elettroshock per un’Europa sonnolenta. Insegue Cornelius Vanderbilt Jr, proprietario di un impero editoriale, cui chiede tutto, ma proprio tutto. Persino il motivo dei suoi denti storti: i soldi sono tanti, sì, ma quando li fai poi ti manca il tempo per rifarti i denti. E questo chiedere tutto a tutti si porta dietro un’ironica teoria. Sul Berliner Börsen Courier Billy Wilder scrive che bisogna farla finita con l’oggettività borghese, con quel garbo deleterio che porta sempre alla scusa non richiesta dopo l’accusa manifesta. Facciamola finita, dice, coi giudizi diplomatici, con la cortesia del dover dire “è scemo ma ha talento”. Se uno è scemo è scemo. Liberi di pensarlo e dirlo senza edulcoranti. Viva il valore assoluto del giudizio soggettivo e fate largo alla franchezza. Billy Wilder ci rammenta il fondamento dell’arte e della libertà. E’ la dittatura dell’opinione che del giornalismo è regola d’oro.