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Cosa significa vivere in un paese in cui è il potere a fondare la realtà

Marco Archetti

Leggere Dovlatov per capire la commedia del governo sovietico in cui la verità è rintracciabile solo nei refusi, biglietti di solo andata per il gulag

"L’unica verità contenuta nei quotidiani sovietici è nei refusi”. Così parlò Sergej Dovlatov, che in quei quotidiani (leningradesi) lavorò, da quei quotidiani venne licenziato, in quei quotidiani (ma estoni) nuovamente assunto. “A casa riaprii quei fogli di giornale. Rilessi qualcosa. Dei fogli ingialliti. Dieci anni di menzogne e falsità”. 
Tra tutti i suoi romanzi – li pubblica Sellerio, sono fulminei e bellissimi, pieni di quella “musica non stentorea del buonsenso che risuona in ogni frase” di cui parlò Iosif Brodskij lodandoli – Compromesso è quello che, ambientato nella redazioni di Estonia sovietica, Tallin Sera e Gioventù estone, racconta più da vicino la commedia del governo sovietico, il rapporto disinvolto che il regime aveva con la verità, e cosa significhi vivere in un paese in cui è il potere a fondare la realtà, avvilendola a proprio corollario. “E’ tutta una fiction, come questa nostra esistenza”. Il romanzo è una vera commedia degli “errori” ideologici e i capitoli si chiamano: compromesso primo, compromesso secondo, compromesso terzo, fino a dodici. E dodici sono i trombettanti articoli, pubblicati da Dovlatov tra il 1973 e il 1976, che aprono ogni racconto, cui l’autore fa seguire in controluce la meno trombettante verità: i retroscena, la sproporzione tra la realtà e quelle goffe, ipocrite stesure, il luccichio di poco nobile metallo di cui (non) brillavano gli eventi prima di essere “trattati” – sotto perpetuo ricatto – a uso propagandistico. “L’alternativa tra bene e male si trasformava in alternativa tra successo e fallimento”. E ovviamente sfavillano le divagazioni, grande arte dovlatoviana, e l’innata capacità di rendere conto dell’epica quotidiana, antieroica, feriale, dei sopravviventi alla macina del potere.

 

“Cosa ti ha spinto al giornalismo? E’ necessario mentire spesso…”. Insomma, Compromesso è la storia della vita di chi scrive(va) in quella Russia schiacciante che è un po’ tutte le Russie, da almeno cent’anni, e che si trova(va) a tirare avanti guardingo, nauseato, tristemente assuefatto, costantemente terrorizzato. “‘In questa redazione, da chi mi devo guardare le spalle?’ ‘Da tutti!’”.
Ne sapeva qualcosa anche la madre di Dovlatov: attrice in gioventù, divenne correttrice di bozze. E da quando divenne correttrice di bozze – racconta Dovlatov – smise di dormire di notte. “Nell’attività giornalistica basta saltare una sola lettera ed è la fine. Immancabilmente viene fuori un’oscenità. O, peggio, un antisovietismo. Ma possono anche capitare l’una e l’altra cosa insieme”. (E che un “veto” bolscevico diventi “peto”– biglietto di sola andata per il gulag.) 
Può capitare che il direttore del giornale ti spedisca a Tallin per festeggiare la nascita del quattrocentomillesimo abitante della città, o meglio, per aspettare che nasca, anzi, per inventartelo dal nulla o quasi – “voglio uno normale, niente di patologico, coi genitori incensurati, non alcolizzati e iscritti al partito”, raccomanda il direttore; anche se Tallin non ha proprio quattrocentomila abitanti (“suvvia, cifra convenzionale”), anche se quella notte ne nascono molti ma tutti si ostinano a non andar bene (uno perché etiope, uno perché ebreo, un altro perché non vuol chiamare il bebé Lembit, nome folkloristico – “se si rifiuta gli rifili dei soldi, glieli faccio mandare”, sbraita al telefono il direttore).

 

Oppure che ci si ritrovi in una sperduta località per celebrare Linda Pejps, eroina agricola, mungitrice stachanovista, per raccogliere un suo testo da mandare niente meno che a Breznev; e poi scoprire che la ragazza non è proprio una ragazza, che è iscritta al partito solo dal giorno prima. E, soprattutto, che la risposta di Breznev era pronta nel cassetto ben prima della lettera della Pepjs.
Capita anche di scrivere un ricordo del “fedele figlio del popolo estone, Eroe del Lavoro” Chubert Il’ves, e di dover recitare sulla bara il discorso ufficiale. Senonché, ci si accorge che il defunto non è il defunto, ma un altro: un contabile del kolchoz dei pescatori. Ma si pronuncia lo stesso, ci si commuove lo stesso, si seppellisce lo stesso. La commedia deve andare avanti. Nemmeno da morti si ha il diritto alla realtà.

 

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